“Il capitalismo ti dà il superfluo, il socialismo ti dà il necessario”: così recita uno slogan, coniato e diffuso da Marco Rizzo e largamente impiegato nel corso di comizi e interventi su organi televisivi e di stampa. Apparentemente una formula snella ed efficace, una sintesi chiara e senza fronzoli, che va dritta al punto ed è comprensibile da tutti. Coerente, peraltro, con l’immagine bread and butter di quadri politici capaci di rabboccare l’olio del motore dell’automobile e di tirare di boxe. Gente vicina alla classe operaia, di cui condivide il linguaggio, le abitudini e il buon senso.
Ma quali sono i presupposti di un simile slogan? Non intendiamo certo “fare le pulci” a una formula propagandistica per puro e sterile esercizio polemico. Tuttavia, anche quando si adatta il registro al contesto, le parole d’ordine qualificanti di un’organizzazione comunista dovrebbero contenere ed esprimere sinteticamente una solida impostazione teorica, legarsi a un’adeguata analisi della situazione storica contemporanea e della “fase”, e agli obiettivi di avanzamento del movimento operaio. Per questa ragione, gli slogan vanno sempre interrogati, e occorre considerare accuratamente la possibilità che inducano ad assumere posizionamenti tattici improduttivi o dannosi, o addirittura riflettano un orizzonte strategico inadeguato. Nel caso della formula in questione, la ricerca dell’efficacia comunicativa corre il serio rischio di veicolare distorsioni teoriche, controproducenti sul piano pratico e politico, e per giunta subalterne ai leitmotiv della propaganda borghese circa la natura e gli obiettivi del socialismo. Ma andiamo con ordine.
La formula “superfluo/necessario” conduce immediatamente al problema della relazione tra la teoria e la prassi comunista, da un lato, e i prodotti più avanzati dello sviluppo capitalistico sul terreno strutturale e sovrastrutturale, dall’altro. Il modo di produzione capitalistico ha svolto secondo Marx una enorme funzione civilizzatrice. Traendo la società occidentale (e poi globale) fuori dal sistema produttivo e politico feudale, il capitale ha progressivamente generalizzato gli scambi e i commerci, innovato le tecniche e accresciuto le capacità produttive del genere umano. La borghesia, classe in ascesa e vera forza modernizzatrice, ha via via ampliato il proprio potere, fino a dar luogo a un’epoca di rivoluzioni politiche che hanno abbattuto il vecchio ordine cetuale e hanno imposto il principio della libertà personale e dell’eguaglianza giuridica (certo con l’esclusione, o con la limitazione dei diritti democratici, per un lungo periodo, per i poveri e per le donne). I grandi progressi dell’epoca borghese sono stati realizzati però in forma ancora “antagonistica”, sostituendo all’ordine cetuale il più prosaico dominio di classe.
Marx e il marxismo hanno dovuto da subito porsi il problema del corretto atteggiamento dei rivoluzionari nei confronti della struttura e della sovrastruttura capitalistica. Più precisamente, il problema di che farsene, una volta conquistato con mezzi legali o illegali il potere politico, delle forze produttive sviluppate dal capitale (tecnologie, metodi di organizzazione del lavoro, etc.), che farsene dello Stato borghese e dei suoi apparati, che farsene del diritto e della cultura borghese. Le risposte sono state varie e differenziate. Riguardo lo Stato, almeno a partire dalla Critica del programma di Gotha, si è posta l’esigenza duplice: da un lato, di smantellare la compagine statuale borghese, indissolubilmente legata a specifici interessi di classe; dall’altro, di realizzare la transizione socialista mediante una macchina amministrativa di pari, se non superiore, universalità, capillarità ed efficacia.
Le capacità produttive del capitale, invece, sono sempre state considerate in modo più “dialettico” come capacità produttive riscattabili, potenziale patrimonio del genere umano e dei produttori associati, una volta cessato il dominio di classe, anziché esclusiva della classe proprietaria. Nel quadro di una concezione materialistica della storia, l’ampio sviluppo delle forze produttive ha rappresentato il presupposto necessario per l’instaurazione e il progresso di una società socialista, capace di superare in avanti, e non romanticamente all’indietro, il modo di produzione capitalistico: di liberare le forze produttive da rapporti di produzione divenuti frenanti, e di riorganizzare la vita associata del genere umano secondo principi di pianificazione razionale e democratica.
Se lo Stato non può liberarsi del marchio di classe, e deve essere abbattuto e sostituito da uno Stato democratico completamente diverso e votato all’auto-estinzione (e si discute ormai da secoli su quanto i diversi esperimenti socialisti abbiano conseguito realmente almeno l’obiettivo della diversità dello Stato socialista), le forze produttive sono considerate più “neutre” e riscattabili, e le tecnologie sono convertibili a scopi diversi da quelli per cui il capitale le ha sviluppate e utilizzate, cioè lo sfruttamento intensivo della forza-lavoro e l’estrazione di plusvalore.
Anche prendendo per buona la neutralità delle forze produttive e la possibilità di ereditare l’apparato produttivo capitalistico e i suoi metodi di organizzazione (si pensi alla valutazione del taylorismo fornita da Lenin nel celebre scritto su I compiti immediati del potere sovietico) e servirsene per i propri scopi, ai comunisti rimane sempre il compito, tutt’altro che facile e scontato, di sviluppare una teoria critica dei bisogni.
Tutti abbiamo davanti l’inondazione seduttiva di merci capitalisticamente prodotte, che soddisfano bisogni materiali e immateriali. Gli economisti moderni, ma anche filosofi come Hegel e Marx, si sono spesso interrogati sul tipo di rapporto che intercorre tra capacità produttive e bisogni: sono i bisogni a evolversi, a svilupparsi e raffinarsi, e a stimolare quindi la ricerca di una produzione capace di soddisfarli? Oppure sono le capacità produttive e le tecniche a evolversi indipendentemente, a creare nuovi beni e nuove categorie merceologiche, e i bisogni corrispondenti sorgono soltanto dopo che è già stata posta la possibilità della loro soddisfazione? È la domanda che richiede un’offerta adeguata, oppure è l’offerta che induce la domanda?
Al di là di questa difficile questione, è importante notare che i bisogni sono legati al contesto storico e sociale in cui nascono e crescono i soggetti che ne sono portatori. Un antico romano non aveva, evidentemente, alcuna possibilità di sviluppare un bisogno del nuovo modello di iPhone, né un attuale cittadino italiano, a meno di eccezionali feticismi antiquari, amerà possedere una biga. Gli attuali bisogni – intesi sia come disposizione psicologica soggettiva che come domanda aggregata oggettiva – sono bisogni “capitalistici”, nutriti da esseri umani che vivono in una società capitalista. Ebbene, quali di questi bisogni materiali, immateriali, fisici, psicologici ed estetici generati dal capitalismo meritano di essere mantenuti in una società futura? Quali sono invece i bisogni che l’attuale sistema soddisfa in modo incompiuto, o addirittura reprime? Quali sono i bisogni la cui soddisfazione spetta alla società socialista? Esistono bisogni “naturali”, propri di tutti gli esseri umani in ogni epoca? Oppure esistono soltanto bisogni “primari” ed essenziali, che ogni epoca storica e ogni formazione sociale soddisfano in modo diverso, e la cui soglia è storicamente variabile?
Discutere il tema dei bisogni è di fondamentale importanza per chi, come i comunisti, ha l’obiettivo di riorganizzare e riorientare la produzione pianificandola razionalmente sotto il controllo dei lavoratori. Sono i lavoratori a dover decidere che cosa produrre e quanto produrre. Molto bene. Ma in base a quali criteri dovrebbe avvenire questa deliberazione circa la produzione? Come si possono operare decisioni in materia di indirizzo della produzione, se manca un criterio che consenta di stabilire che cosa è necessario produrre, che cosa è giusto produrre, che cosa è desiderabile produrre, e che cosa è superfluo?
Se la produzione deve soddisfare i bisogni, la riorganizzazione della produzione richiede imprescindibilmente un’accurata definizione dei bisogni legittimi.
A tal fine, ridurre la questione alla distinzione tra il necessario e il superfluo non permette grandi avanzamenti. Tra il necessario (l’imprescindibile ai fini della riproduzione della vita) e il superfluo (l’inessenziale lussuoso) c’è infatti una grande massa di beni – la maggior parte – che non è strettamente necessaria – non è, cioè, condizione imprescindibile per la riproduzione materiale della vita umana. In questo senso, la formula secondo cui “il capitalismo ti dà il superfluo, il socialismo ti dà il necessario” è del tutto erronea.
Nel quadro della critica marxiana dell’economia politica, è proprio il capitale che, acquistando la merce forza-lavoro attraverso l’anticipazione di salario, se ne garantisce il diritto all’uso durante la giornata lavorativa. L’intero impianto della critica marxiana poggia su questa cruciale distinzione tra lavoro e forza-lavoro, e sulla ripartizione della giornata lavorativa in un segmento di lavoro necessario – durante il quale la forza-lavoro riproduce il proprio valore, che le era stato anticipato – e in un segmento di pluslavoro, durante il quale l’operaio lavora per il capitalista consentendogli l’estrazione di plusvalore. Le teorie marxiste del salario non sono uniformi riguardo l’oscillazione attorno alla soglia di sussistenza. In ogni caso, il capitale (almeno nei suoi “centri”; il discorso cambia per le “periferie” dell’imperialismo e del capitalismo “estrattivo”) fornisce alla forza-lavoro il necessario (spesso lo stretto necessario) per riprodurre la propria esistenza, e riesce a far campare (male) anche le masse espulse dalla produzione che compongono il suo esercito industriale di riserva.
Promettere “il necessario” alla classe lavoratrice occidentale è dunque fuorviante, nella misura in cui già il capitalismo lo garantisce. Sul piano della lotta ideologica, inoltre, una simile formula rischia di rinforzare il pregiudizio secondo cui il comunismo equivale a una socializzazione della povertà, a un livellamento verso il basso delle possibilità di consumo degli individui, minacciate di essere ridotte al solo necessario, inteso come minimo vitale, dagli austeri e sadici sovvertitori comunisti nemici della ricchezza.
Al posto dell’erronea dicotomia tra “necessario” e “superfluo”, i comunisti devono invece dotarsi di una teoria critica dei bisogni, che sappia prendere parola, in modo costruttivo, su ciò che ritiene giusto e desiderabile ai fini di una vita umana degna di essere chiamata tale. C’è un intero universo di bisogni non necessari (cioè non strettamente vitali), ma giusti e desiderabili, che il capitalismo non garantisce e non potrà mai garantire stabilmente alla parte più ampia dell’umanità. Il diritto al lavoro, alla casa, all’assistenza sanitaria, all’istruzione, allo sviluppo intellettuale e culturale, corrispondono ad altrettanti livelli di “bisogno” umano, che non sono sempre strettamente necessari dal punto di vista della sopravvivenza, ma sono “primari” (se si vuole, “necessari” in senso morale) dal punto di vista della concezione etica che il socialismo è chiamato a mettere in campo. Non fa dunque problema la categoria del “necessario”, se serve a introdurre il discorso sulla concezione socialista dei requisiti di una buona vita. Molto più controversa, problematica e potenzialmente dannosa, pauperista e retrograda, invece, la coppia necessario/superfluo nella forma in cui viene proposta da Rizzo. Quest’ultima formulazione, infatti, rischia di frenare, anziché favorire, quella riflessione antropologica e filosofica allargata che è necessaria alla promozione di una futura umanità. Per quali bisogni umani lottare? Quali di questi bisogni sono frustrati irrimediabilmente dal capitalismo, e quali sono realizzati in modo superficiale, compensativo, o spostati su altre mete? In che modo può farsene carico una società socialista?
Anche su queste tematiche occorre coinvolgere in un’interlocuzione dinamica intellettuali e classe, partito e movimenti, e servirsi criticamente delle elaborazioni più avanzate delle scienze naturali, umane e sociali. Nessun grande avanzamento, e a maggior ragione nessuna vittoria stabile è possibile senza una concezione adeguatamente complessa dell’umano, attorno alla quale suscitare l’interesse di larghe masse e mobilitarne l’adesione ideologica. Nessun comunismo potrà poggiare sull’incultura e sulla grettezza dell’animo, nessun avanzamento sociale sarà possibile se i comunisti non sapranno collocarsi non soltanto all’avanguardia della lotta di classe e del movimento di emancipazione del lavoro e dei lavoratori, ma anche all’avanguardia della sintesi politica dei progressi scientifici e culturali della civiltà umana.