Abramo Customer Care, la ristrutturazione aziendale sulle spalle dei lavoratori e il sogno di una gestione senza padroni
Avevamo già parlato della vicenda della Abramo Customer Care S.p.a. a inizio anno1, rilevando come rappresentasse l’esempio “ideale” di realtà che, dopo aver utilizzato aiuti pubblici2 ed essersi affidata a forme di precarizzazione, invece di valorizzare la propria esperienza decide di smantellare la struttura aziendale, per motivi di ristrutturazione del capitale, inducendo una crisi non spiegabile da nessun calo delle commesse. La società possiede sedi in diversi centri della Calabria e d’Italia – e non solo – e offre da anni canali di front office, back office, assistenza commerciale, tecnica e gestione reclami a diversi operatori telefonici. A fine anno 2020, solo i debiti del marchio verso i lavoratori dipendenti, comprendenti retribuzioni e vari ratei da saldare, secondo il portale Fallco ammontavano a circa 8 milioni e mezzo di euro3, ai quali si aggiungevano altri 8 milioni di debiti verso l’Inps e gli istituti di previdenza e sicurezza in generale, a fronte di poco più di 4 milioni di debiti, tra i dividendi, verso le imprese controllanti (in realtà una partita di giro, poiché tra queste vi è in particolare la Abramo Holding). L’ansia dei lavoratori del call center cresce a mano a mano che le aste per la vendita della compagnia continuano ad andare deserte e la politica locale e nazionale non sanno andare oltre qualche dichiarazione di circostanza e delle pacche sulla spalla.
Abbiamo intervistato due lavoratori tra i più combattivi dell’azienda, nella quale lavorano da anni. Usando nomi di fantasia abbiamo riportato le loro considerazioni e le loro proposte.
Ciao Giacomo, com’è attualmente la situazione per quanto riguarda gli emolumenti e il futuro dell’impresa?
Per il momento, per fortuna, gli stipendi sono tornati ad arrivare con regolarità, in particolare sono due o tre mesi che stanno pagando puntualmente. La vicenda del nostro call center si sarebbe dovuta chiudere con la vendita all’asta della società. La sezione fallimentare del Tribunale di Roma lo ha deciso dopo che il 15 giugno aveva accolto la richiesta di concordato preventivo, avanzata dall’azienda nei mesi scorsi a causa delle difficoltà finanziarie che manifesta, a nostro discapito, da diverso tempo.
Le aste però non sembrano essere andate molto bene.
I potenziali acquirenti sono stati la System House S.r.l ed Heritage Ventures Ireland, e all’asta del 22 luglio non si è presentata nessuna delle due società. Ho il dubbio molto forte che sia tutta una manovra per allungare il brodo perché prima Abramo ha chiesto il concordato, poi si è fatta avanti la Heritage in cui c’è l’ex direttore di Abramo C. C., che fece anche un passaggio in System House. Successivamente, la System House ha presentato la sua offerta ed Heritage si è ritirata, ha fatto poi una proposta di affitto che non è andata a buon fine, per poi ripresentarsi con l’opzione di acquisto totale. Infine, come accennato, non si è presentata nessuna di esse!
Come si spiega, secondo te, tutto questo?
Io credo che il tutto sia finalizzato, principalmente, a ristrutturare l’azienda e renderla una società fatta di tante piccole società, delle scatole cinesi. Anche ora, ad esempio, i capannoni non sono di Abramo Customer Care ma di Abramo Real Estate. Poi c’è Abramo Holding, Abramo Logistics, eccetera. Heritage, poi, è un fondo d’investimento. Solitamente lo scopo di questi schemi è quello di rendere più veloce lo spostamento di capitali verso i settori via via più profittevoli: la liquidità è gestita in maniera “esternalizzata” rispetto all’impresa specifica, attraverso la holding, così se chiude il ramo call center (o, meglio, se lo “fai” chiudere dirottando i fondi altrove) rimani in piedi come un’altra società, mentre i lavoratori della vecchia società li puoi gettare via come una scarpa vecchia. Questo ha molto senso dal momento che il business dei call center comincia a non essere profittevole come un tempo, visto che la gente va banalmente su internet a cercarsi nuove offerte.
Com’è l’umore dei tuoi colleghi?
Ovviamente basso, colmo di frustrazione. Anche perché, mentre succede tutto questo, molti di noi hanno cause intentate per demansionamento ed arretrati, che arrivano fino a 50.000 euro per lavoratore.
Marco, anche tu lavori da molti anni in Abramo. Un’idea suggestiva si fa strada fra i dipendenti dell’impresa, ovvero quella di rilevare l’azienda usando la liquidità che si otterrebbe magari rinunciando ai crediti o investendo parte del Tfr. Che prospettive darebbe una strada del genere?
Assumere la gestione dell’azienda sarebbe certamente una soluzione a lungo termine non solo in senso banalmente economico ma nella qualità della nostra vita e in quella dei nostri colleghi più giovani e dei nostri figli. C’è chi sostiene che le uniche reali soluzioni immediate siano le clausole sociali e l’obbligo di riassunzione del personale uscente. A queste aggiungerei l’internalizzazione da parte delle aziende committenti e dei contratti stabili, ma siamo già nella “fantapolitica” rispetto all’organizzazione che noi lavoratori riusciamo a esprimere. Purtroppo, però, oggi come oggi ciò significherebbe delegare le nostre vite a dei soggetti che hanno tutto l’interesse a fare di nuovo ciò che ha fatto Abramo – e che avranno, con tutta probabilità, dei legami economici e personali forti con Abramo stesso. Dobbiamo costringere le istituzioni a riconoscere – e noi stessi dobbiamo prenderne coscienza – che siamo noi lavoratori gli unici ad aver creato la ricchezza di questa azienda. In generale nessun lavoratore ha bisogno di una persona che lo gestisca solo perché ha investito un capitale che ha ereditato o ottenuto attraverso lo sfruttamento del lavoro di altre persone. Amministrare l’azienda e avere un Direttore Generale che, al contrario di prima, risponderebbe ai lavoratori, significherebbe decidere quanto produrre, come produrre e cosa fare con il profitto. Attualmente ci sono difficoltà politiche gigantesche da superare, anche se la difficoltà maggiore mi sembra proprio la mancanza di fiducia in loro stessi e nelle loro potenzialità da parte dei lavoratori.
Quali sono queste difficoltà e come potrebbero essere risolte?
Innanzitutto è ovvio che occorrerebbe un investimento per rinnovare la struttura, ad esempio, effettuando un ricablaggio degli ambienti o adattandoli a nuovi tipi di produzione di beni e servizi. Anche, occorrerebbe un piano industriale per acquisire le digital skill e gli strumenti per non rimanere indietro in un contesto che sta cambiando. È per questo che un obiettivo simile non si può raggiungere isolatamente o affidandosi alle istituzioni che si sono dimostrate sempre pronte alla tutela degli interessi delle parti datoriali più che dei lavoratori. Occorrerebbe un settore pubblico in cui la volontà dei lavoratori ha un peso determinante, in modo che gli enti controllati dallo Stato (come oggi la Cassa Depositi e Prestiti) utilizzino i fondi per investire in una realtà controllata dai lavoratori stessi. Per tutto questo, l’unico modo per inseguire questo obiettivo, sia all’interno dell’attuale azienda che all’interno di eventuali nuovi appaltatori, è la lotta comune insieme agli altri settori del precariato. Non vi è attualmente la pressione popolare sufficiente affinché l’esecutivo spinga per una cosa del genere, che non andrebbe a vantaggio di nessuno dei capitalisti che oggi sono contigui alla classe politica nazionale e locale. È questa pressione che noi dobbiamo creare. Un altro problema, come ricordano molti, ha a che fare con il modus operandi di Abramo, che non è riproducibile, per ovvi motivi, da un’impresa controllata dai lavoratori. Una nuova realtà che abolisca lo sfruttamento e che punti ad avere una vita lunga avrebbe bisogno del rinnovamento del settore pubblico prima citato, in modo che si possa pianificare collettivamente la ripresa delle commesse assicurando un indotto da enti pubblici e parastatali. Sarebbe, finalmente, un investimento di fondi finalizzato a favorire la gestione da parte di chi davvero crea innovazione e valore (molte innovazioni del campo delle telecomunicazioni provengono dai lavoratori di Abramo) e lo fa senza scaricare il costo su un subalterno. Ciò che va conquistato, ripeto, è il potere negoziale politico per pretendere delle misure del genere e la presa di coscienza dei colleghi, per puntare una volta tanto ad un obiettivo ambizioso. E questo non può essere raggiunto con le lotte isolate o delegando a istituzioni o sindacati compromessi con il potere, bensì con l’unione di tutti i lavoratori sotto queste parole d’ordine.
- https://www.lordinenuovo.it/2021/01/19/ritardi-negli-stipendi-e-precarieta-intervista-a-due-lavoratori-di-abramo-customer-care/
- https://www.malanova.info/2019/12/15/cobas-quale-futuro-per-la-abramo-customer-care/
- http://www.portalecreditori.it/procedure.php?altre=concordati_as&filter=txtTesto%7CAbramo