Guerra di classe
Esiste una guerra che non è combattuta con armi più o meno convenzionali, che non prevede droni né missili intelligenti, che non ricorre a bombardamenti mirati, che uccide nella legalità entro il quadro dell’ordine democratico. E’ la guerra di classe, a cui i lavoratori sono chiamati a partecipare non da una libera scelta ma dal bisogno e dalla necessità che impongono al lavoratore di doversi scegliere il proprio aguzzino.
Nessuno ha scelto di vivere come schiavo del lavoro salariato, né di dedicare la propria esistenza all’arricchimento di parassiti sociali.
“La fame da lupi mannari di pluslavoro”,1 come la chiama Marx, ha bisogno di sacrificare sempre più lavoratori per saziare il bisogno di realizzare profitti.
“L’economizzazione dei mezzi sociali di produzione, che giunge a maturazione come in una serra soltanto nel sistema di fabbrica, diviene allo stesso tempo, nelle mani del capitale, depredazione sistematica delle condizioni di vita dell’operaio durante il lavoro, dello spazio, dell’aria, della luce e dei mezzi personali di difesa contro le circostanze implicanti il pericolo di morte o antiigieniche del processo di produzione, per non parlare dei provvedimenti miranti alla comodità dell’operaio” 2
Ecco perché, dietro i veli delle garanzie dello stato di diritto, e delle costituzioni democratiche che proliferano nei paesi a capitalismo avanzato, resta, nuda e cruda, la guerra a cui proletari sono costretti nel momento stesso in cui diventano parte, tramite il loro lavoro, del ciclo produttivo.
Parafrasando un noto slogan, alla domanda “cosa vuole il padrone?” si può rispondere, senza paura di sbagliare, che vuole tutto. Ogni goccia di sudore, ogni frazione di energia operaia, è reclamata da chi possiede i mezzi di produzione. Al lavoratore non appartiene il suo tempo, la sua testa, le sue energie; la sua esistenza viene ridotta entro lo spazio angusto di chi è costretto a lavorare per consumare e consumare per lavorare, sottomettendosi alle regole imposte dall’organizzazione capitalista del lavoro.
È la vita degli appartenenti a una intera classe ad essere considerata inutile, superflua, priva di qualunque valore che non sia quello di produrre il prima possibile fino all’esaurimento delle proprie energie fisiche e mentali. Malattie e morti fanno parte del prezzo da pagare.
“La produzione capitalistica – scrive Marx – […] è invece, molto più di ogni altro modo di produzione, una dilapidatrice di uomini, di lavoro vivente, una dilapidatrice non solo di carne e di sangue, ma pure di nervi e di cervelli. In realtà, è per mezzo del più mostruoso sacrificio dello sviluppo degli individui che soprattutto si assicura e realizza lo sviluppo dell’umanità in quest’epoca storica che immediatamente precede la cosciente ricostituzione dell’umana società. Poiché tutta l’economia, di cui si parla, trae origine dal carattere sociale del lavoro, così è in effetti proprio questa immediata natura sociale del lavoro che determina tale sperpero nella vita e nella salute degli operai.”3
La “razionalizzazione” della produzione capitalistica comporta, come ci ha spiegato Marx, lo sperpero della vita e della salute dell’operaio, è causa di condizioni di lavoro insicure e malsane che lo danneggiano, ledendone tutti i sensi, rendendo il tempo di lavoro insopportabile ed esponendolo a un costante pericolo di infortuni, malattie e morte.
I “bollettini di guerra, che enumerano i feriti e i morti dell’esercito industriale”4 ci ricordano che una classe è quella che domina, mentre l’altra è condannata, dai rapporti sociali esistenti, a subire.
E’ “naturale” per un operaio morire mentre produce la ricchezza per conto del padrone; è la normalità in una società basata sulla sopraffazione del più debole da parte del più forte.
Non si tratta, quindi, di fatalità, né, tantomeno, della conseguenza di disfunzioni del sistema, rimediabili con una più oculata produzione di leggi o con l’avvento di una magistratura democratica5 e di ispettori del lavoro integerrimi.
Non è “l’economia che ha sopraffatto lo spirito”,6 come ipocritamente scrive la stampa borghese, ma la struttura stessa della produzione capitalista responsabile dell’infinito massacro dei lavoratori.
Mai come oggi è vero l’insegnamento di Marx secondo cui il lavoro morto (impianti e macchinari, manufatti frutto del lavoro di generazioni passate) uccide il lavoro vivo (i salariati che lavorano alle macchine e agli impianti).
I caduti sul fronte del lavoro in Italia sono stati, dall’inizio del 2021, oltre 700. Statisticamente le morti sul lavoro sono causate, in buona parte, da impianti obsoleti e non in regola. Se traduciamo tutto questo in termini marxisti possiamo dire che ci troviamo di fronte al risparmio sul capitale costante per aumentare il saggio di sfruttamento. Il linguaggio del capitalista è più brutale: nei bilanci aziendali, il sistema di macchine e impianti va sotto la voce “ammortamento”. Il mancato ammortamento degli impianti, cioè del lavoro morto, uccide, appunto chi applica lavoro vivo.7
Alle statistiche “ufficiali” vanno aggiunte le vittime delle brutali condizioni imposte dal lavoro clandestino e i lavoratori che muoiono fuori dal lavoro ma in conseguenza di malattie causate dall’attività svolta al servizio del capitale. Tutte catalogate come vittime per cause naturali ed invece ascrivibili, a pieno titolo, alla bestialità dell’organizzazione produttiva capitalistica
Il profitto uccide, spesso lentamente, con un’agonia che dura tutta una vita, a volte annientandola in pochi attimi. E’ la normalità della condizione operaia. E’ proprio della normalità della loro esistenza che i proletari dovrebbero preoccuparsi; e con essa della loro libertà, del loro diritto alla vita degna di essere vissuta che, invece, viene negata.
E questo ci riporta alla tematica della guerra di classe, l’unica guerra che è giusto e necessario combattere ad oltranza, senza mezzi termini né compromessi, resi improponibili, nel lungo periodo, proprio dalla presenza di interessi di classe diametralmente opposti.
Da sempre la borghesia cerca di convincere il proletariato che non si tratta di guerra ma di “normale” confronto in base ad un comune obiettivo, quello del bene della fabbrica, di un presunto comune interesse ad aumentare la produttività perché di un’azienda florida beneficerebbero in egual misura imprenditori e lavoratori.
Questa mentalità non ha mancato di fare breccia tra i lavoratori. Ed ha contribuito a costruire il falso mito della coesistenza pacifica tra le classi per cui le soluzioni, anche quando non si può fare affidamento su un padrone responsabile ed illuminato, si troverebbero sempre all’interno del sistema. Come se le leggi fossero strumenti di giustizia e non mezzi di difesa dei privilegi di chi ha il potere economico, come se l’apparato statale avesse la funzione di garantire il benessere dei lavoratori, e le “forze dell’ordine” fossero davvero preposte a garantire la libertà.
I proletari sono in guerra anche quando non ne hanno coscienza, e si immaginano “popolo sovrano” – che ha titolo di decidere democraticamente le sorti del paese in cui vive – e non comprendono che è il diritto del padrone ad arricchirsi il principio che regola l’attività umana.
La falsa coscienza dell’operaio, al contrario di quella del borghese – piccolo medio e grande che sia – è in contraddizione con la sua condizione materiale, con la sua vita. Questa contraddizione è espressione di un conflitto insanabile fra gli interessi del capitale e quelli del lavoro e ci spiega che la guerra fra capitale e lavoro è totale perché il profitto può crescere solo a spese del lavoro e il lavoro può emanciparsi solo negando il profitto.
Operai, salariati, proletari. Si tratta di parole antiche che non godono il privilegio dell’originalità, che non entrano nei dibattiti alla moda, né stimolano inutili civettii sui social. E che richiamano alla memoria lotte antiche, barricate, scontri di piazza che erano espressione della consapevolezza di essere una classe sociale che doveva combattere una guerra durissima contro la classe dominante, che mirava a schiavizzare e sottomettere i lavoratori.
“Chi tocca uno, tocca tutti” non può essere solo uno slogan che emerge qua e là, nelle poche sacche di resistenza che si vanno manifestando contro l’arroganza padronale. Deve diventare il minimo di coscienza elementare che la classe operaia deve raggiungere per non soccombere.
Finora non è stato così.
Sono stati licenziati gli operai più combattivi nell’indifferenza generale.
Sono state rottamate intere filiere produttive e sono stati mandati a casa gli operai che erano diventati “merci” obsolete, “rottamati” perché considerati inadatti a sostenere i ritmi imposti dalla crescente corsa a essere più produttivi e competitivi.
La palude degli appalti e i subappalti è diventata un laboratorio per intensificare lo sfruttamento persino al di fuori delle regole definite dai sindacati concertativi, nei “tavoli” con la controparte.
Si è lasciato prolificare il lavoro nero, precario, ricattabile dividendo e parcellizzando una classe già divisa e bastonata.
Si è praticata, per decenni, la conciliazione e la collaborazione di classe. Agli sfruttati è stata garantita solo l’agibilità politica compatibile con lo scontro sociale diretto e guidato dai capitalisti, quella che permette, con il minimo sforzo, di garantire la pace sociale.
L’ideologia del rispetto delle leggi e degli organi costituiti ha portato all’accettazione di una vita da schiavi, appena mascherata dall’illusione di una libertà che era solo parvenza.
Acquisire la consapevolezza che si è in guerra – e si combatte questa guerra di classe in trincee contrapposte – vuol dire respingere il totem del modello democratico-borghese, oggi assolutizzato come l’unico orizzonte politico praticabile.
Un modello che insegna a non lottare. A non bloccare i cancelli né le strade, a non scendere in piazza, a non scrivere sui muri, a non odiare, a vivere, insomma come maggiordomi.
La lotta, quella vera, è considerata violenza, esecrabile, da condannare, da reprimere.
Ma la violenza non cammina su gambe proprie ma accompagna sempre interessi a cui in modo specifico bisogna rivolgere l’attenzione. La fonte primaria della violenza nel sistema del capitale risiede nello scambio formalmente equo, ma sostanzialmente iniquo, tra capitale e forza-lavoro, tra chi assume lavoratori e tra chi è costretto a vendersi per campare.
Si tratta di una violenza mediata dalle istituzioni e quindi invisibile per chi non ha coscienza della guerra di classe. Ecco perché, nell’uso comune il sistema dominante ha gioco facile a ridurre la violenza al comportamento di sparuti facinorosi di turno.
La potenziale violenza sociale è solo il “negativo” di un ordine fondato sulla violenza del salario, della produzione di disuguaglianze sociali fino alla negazione del diritto di vita dei più impoveriti, di tutte le forme di costrizione ideologica all’assuefazione all’ingiustizia e alla rassegnazione all’impotenza.
Della violenza dell’attuale democrazia non si parla mai né, tantomeno, del fatto che la dittatura della classe dominante si fonda proprio sulla capacità di coniugare democraticamente “ricerca del consenso” e “repressione del dissenso” a seconda delle circostanze.
Allo stesso modo non viene percepita la violenza istituzionale insita nelle forme caritatevoli ed assistenziali che contribuiscono a mistificare, sorreggendo gli individui nella loro dipendenza, ma favorendone l’umiliazione, privati della comprensione e coscienza di essere classe universale, e quindi potenzialmente maggioritaria.
La “libertà” spacciata dal sistema è solo quella di dover continuamente cercare lavoro, precarizzato e svalorizzato, se non proprio di accettare una vita che ne è stata del tutto privata.
Rivendicare “diritti” può avere un senso solo in quanto si acquista la coscienza che il diritto non sostenuto dalla forza è solo un’idea vuota, inutilizzabile per la giustizia sociale che va conquistata con le azioni di tutti e di ciascuno.
Il proletariato ne ha tutte le potenzialità. L’emancipazione dell’umanità lavoratrice chiama in causa, oggi come ieri, la necessità di un’altra forma di organizzazione sociale. A questa necessità rinviano le lotte, per quanto isolate e qualitativamente modeste, che sorgono in tutto il mondo. Per la sua realizzazione le elaborazioni teoriche e la prospettiva indicata da Marx, si rivela, ancora una volta, di estrema e costante attualità.
Graziella Molonia, militante di Red Militant, aderente al Fronte Militante per la Ricostruzione del Partito Comunista
- K. Marx, Il capitale, Edizioni Rinascita, Roma 1952, Libro primo, 1, p. 264.
- Ibid., Libro primo, 2, pp. 133-4.
- Ibid., Libro terzo, 1, p. 125.
- Gli “operai […] vengono sottoposti a tutta una gerarchia di ufficiali e sottufficiali. Essi non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma vengono, ogni giorno e ogni ora, asserviti alla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica. Siffatto dispotismo è tanto più meschino, odioso, esasperante, quanto più apertamente esso proclama di non avere altro scopo che il guadagno” ( K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, in G. M. Bravo (a cura di) Il Manifesto del partito comunista e i suoi interpreti, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 37).
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Cfr. M. Caldiroli, Il lato oscuro dei morti sul lavoro, “il manifesto”, 14 agosto 2021, p. 14.
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Cfr. G. Criaco, Ogni giorno per tre operai è l’ultimo giorno, “Il Riformista”, 9 settembre 2021, p. 11.
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“Mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all’operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro vivente.” K. Marx, Il capitale, cit., Libro primo, 2, p. 129).