Guerra e propaganda, tre tesi fallaci a sostegno dell’invio di armi in Ucraina
La strategia dominante della classe capitalistica europea nell’affrontare la crisi ucraina è coincisa in questi mesi col cercare di nascondere in tutti i modi il carattere di scontro inter-imperialistico del conflitto in corso, per favorire la lettura dello scontro tra “civiltà” – lettura molto più utile per giustificare determinate scelte economiche e geopolitiche che sono sostanzialmente dettate dalle frange dominanti del capitale occidentale. Mentre, infatti, il prolungamento della guerra e le sanzioni stanno provocando un certo disagio che la piccola e media classe imprenditoriale scarica facilmente su lavoratori e consumatori facendo crollare i salari reali, il grande capitale come le compagnie energetiche approfittano dell’incertezza per gonfiare i profitti, i produttori di armi si assicurano commesse a peso d’oro e Bonomi, presidente di Confindustria, ha fatto visita a Zelensky per garantire all’imprenditoria italiana il suo posto nella ricostruzione post-bellica e nelle nuove fette di mercato a est che un esito vittorioso della guerra potrebbe apportare proseguendo, l’Ucraina, sulla strada delle massicce liberalizzazioni e delle privatizzazioni delle risorse fondamentali, quali i terreni fertili e l’energia nucleare, soprattutto a favore di monopoli occidentali. L’imprenditoria europea e italiana, pienamente integrata negli scambi commerciali con gli Usa e da anni detentrice di massicci investimenti oltreoceano, trova, infine, conveniente appoggiare i piani della borghesia statunitense, in conflitto con Russia e Cina, e che porta in dote il gigantesco apparato militare degli Stati Uniti. Per giustificare tali aspirazioni imperialistiche è necessario rendere marginale il fatto che sì, Putin è un aggressore che punta ad egemonizzare determinati territori per fare il gioco dei monopoli russi a discapito di vite umane, ma i governi ucraini degli ultimi 8 anni, sostenuti dalle forze europee ed americane, sono stati tra i più retrogradi, anti-popolari e vicini all’estrema destra neo-nazista della storia recente, colpevoli di stragi come quella di Odessa del 2014 e di repressioni ai danni di civili di etnia russa (con il solo Zelensky che ha messo al bando, negli ultimi quattro mesi, 11 formazioni politiche di opposizione).
Ci sono tre principali tesi da decostruire nella narrazione che giustifica misure come l’invio di armi al governo ucraino. La prima è il carattere “progressista” di una guerra attiva contro la Russia. La seconda è che il rischio di un allargamento sostanziale del conflitto sia accettabile vista la posta in gioco. La terza è il parallelo tra la resistenza ucraina e la Resistenza italiana durante la seconda guerra mondiale.
1 – Il carattere “progressista” di una guerra attiva contro la Russia
La logica progressista e gradualista che si utilizza oggi all’interno del centrosinistra italiano – e non solo – nel momento in cui si invoca la pace mentre si consegnano armi ad una delle parti in guerra risponderebbe alla convinzione per cui il mondo occidentale “democratico e liberale” vada sostenuto, anche a costo di un conflitto armato, contro governi illiberali e autoritari quale quello russo. Quando articolato in buona fede, l’illusorietà di questo discorso si origina, innanzitutto, nella mancata comprensione della natura dell’imperialismo, che, come sistema fondato sull’esportazione predatoria di capitale e sullo sfruttamento, da parte dei monopoli più avanzati del mondo capitalista, delle risorse e della classe lavoratrice di tutto il mondo, dà l’opportunità ad alcune nazioni in testa alla piramide imperialista di concedere ai propri cittadini uno stile di vita leggermente più agiato e un sistema istituzionale formalmente meno autocratico, al fine di stemperare il conflitto sociale interno. Un sistema istituzionale che, pur non garantendo in maniera sostanziale a tutte le classi alcune libertà (come quella di dissenso, o quella dell’elettorato attivo e passivo, quella di sciopero), grazie anche alle risorse drenate dai paesi situati nel basso della piramide imperialista le assicura in maniera più o meno formale, quanto basta per contenere e incanalare la rabbia sociale. Se all’inizio del ‘900 il colonialismo dei paesi europei occidentali rappresentava l’immagine più compiuta del vertice della piramide imperialista, oggi questo ruolo è ancora assunto dagli Stati Uniti e dalla Nato – con i 30 milioni di morti che gli Usa hanno provocato solo nella seconda metà del XX secolo tra guerre d’invasione dirette e colpi di stato eterodiretti. Un sistema di violenza e dominio, quello delle classi egemoniche occidentali, che solo negli ultimi 25 anni ha legittimato le invasioni di Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia e che cela con successo il fatto che “la guerra al terrorismo” guidata dagli Stati Uniti nel XXI secolo ha ucciso ben 2 milioni di persone. L’errore “dialettico” dei progressisti si evince evidentemente dal fatto che la vittoria di un polo imperialista su un altro, qualunque sia la natura formale del suo governo, non incrementerebbe in alcun modo la qualità della vita, la consapevolezza o il potere negoziale e politico della maggioranza della popolazione mondiale, i ceti popolari, che in un contesto di capitalismo allo stadio più avanzato continuerebbero ad essere oppresse o, al massimo, “corrotte” come aristocrazia proletaria negli Stati più progrediti. Lo scontro tra nazioni, inoltre, apporterebbe un irrigidimento ulteriore delle istanze di giustizia sociale globale, conseguenza della propaganda nazionalista che concentra risorse e energie sulla lotta al nemico esterno. Oggi che la lotta di classe non è più all’ordine del giorno, è dunque evidente la contraddizione e l’ipocrisia di determinati partiti “pacifisti” nel momento in cui si preferisce, invece affrontare il complicato lavoro per una pace che vada oltre gli interessi peculiari, fomentare facilmente i popoli l’uno contro l’altro dando ulteriore forza al proprio imperialismo, in questo caso l’imperialismo più feroce – legittimandolo, così, ancora più di prima, a incrementare la sua tendenza allo sfruttamento nei confronti dei popoli tutti, occidentali e “orientali”.
Una critica speculare si potrebbe fare ai cosiddetti “marxisti putiniani”: coloro che credono che, nonostante Putin rappresenti una frangia dell’imperialismo, un aumento del suo potere (e del potere della Cina e di altre nazioni capitaliste emergenti) possa creare un ambiente internazionale più equilibrato e multipolare, con i diversi poli che si contenderebbero allora i favori degli strati popolari. Un’ipotesi, questa, arbitraria, non materialista, che non tiene in considerazione il potere delle istituzioni padronali che dettano la linea sempre e comunque all’interno di qualsiasi tipo di stato liberale, soprattutto in mancanza di “competizione politica” con una realtà socialista, e che somiglia molto a quello che gli inglesi chiamerebbero “wishful thinking”. Come osservò Lenin a ridosso della Prima Guerra Mondiale commentando la teoria dell’“ultraimperialismo” che fu di Karl Kautsky, la pia illusione di «una nuova era di disarmo e di pace duratura che potrebbe essere davanti a noi serve per coprire l’opportunismo di chi ritiene ormai superflua la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, che sola può garantire, eliminando la causa prima delle guerre imperialiste, una pace duratura».1
La posta in gioco in un allargamento del conflitto
L’egemonia dei nazionalisti e dei falsi pacifisti di oggi si collega, naturalmente, al tema del confronto con le guerre mondiali e con la Resistenza italiana. Al posto dell’opportunismo tipico di chi ha votato i crediti di guerra nel 1914 sostenendo che “bisogna difendere innanzitutto la patria e il mondo più progredito” abbiamo, oggi, qualcosa di ancora peggiore: l’ipocrisia e la colpevole mancanza di comprensione di chi non vede differenza tra i partigiani italiani e i militari (spesso e volentieri di estrema destra) ucraini, i foreign fighters e chi cede armi alle forze armate ucraine.
Una delle giustificazioni per l’affiancamento di resistenza ucraina e italiana passa per la reductio ad Hitlerum di Putin come soggetto politico. Questo argomento è fallace, sebbene sia sottinteso in tutti i discorsi di chi invoca lo scontro totale con la Russia in nome della tutela della civiltà “globale”. Il tema è importante perché si lega in prima battuta alla necessità o meno di esporsi esplicitamente (per una presunta “solidarietà partigiana”) a favore di uno dei poli in conflitto e, quindi, alla inevitabilità che la guerra divenga “mondiale”. La fallacia dell’argomento sta nel fatto che si utilizza un paragone, peraltro storicamente inesatto, per legittimare la partecipazione del nostro paese come di altri ad un conflitto i cui costi vengono fatti pagare alle classi popolari dei paesi coinvolti. Le differenze fra i due contesti storici e le due forme di governo, la Russia contemporanea e la Germania nazista, entrambe espressione di interessi opposti a quelli dei proletari e degli strati popolari, scompaiono dalle analisi dei media per lasciare il posto alla propaganda. Si pone il problema, dunque, del confrontare la necessità e l’inevitabilità di un conflitto su scala globale in due contesti differenti e, soprattutto, con rapporti di forza differenti tra classi sfruttatrici e classe lavoratrice mondiale. In assenza di un polo socialista o di un sistema di partiti operai dominanti parte della scena globale, la reductio ad Hitlerum è funzionale alla propaganda del nostro polo imperialista per tingere nelle tinte più fosche possibili una controparte rendendo così legittimo ogni tipo di intervento nei suoi confronti ed è funzionale al tentativo di arruolare i proletari in nome di una unità contro il nemico che in realtà si traduce nella dinamica per cui sono i proletari a pagare i costi della guerra imperialista.
Il parallelo tra la resistenza ucraina e la Resistenza italiana
La comprensione dell’assurdità del paragone fra la Resistenza partigiana e quella ucraina di oggi passa per l’osservazione, innanzitutto, del ruolo “formale” della solidarietà partigiana internazionale nel quadro degli equilibri geopolitici: la Resistenza italiana ed europea, se si trovarono a collaborare con gli eserciti di un polo imperialista contro il nemico “peggiore”, sorsero in un contesto in cui la guerra mondiale era già realtà, per via degli scontri tra le fazioni imperialiste. Non c’era più niente da fomentare. Oggi fortunatamente (al momento in cui scriviamo) una guerra mondiale con l’ulteriore indebolimento delle istanze di classe sull’altare di una propaganda nazionalista estrema non è ancora una reale opzione, anche se l’allargamento della NATO e l’acuirsi della contesa interimperialistica restituiscono i conflitti armati come uno scenario sempre possibile.
Soprattutto, occorre analizzare l’elemento più importante, che coincide con il ruolo sostanziale e politico dei partigiani stessi. La differenza politica tra i due contesti è abissale. Negli anni Quaranta, infatti, esisteva un sistema socialista mondiale da difendere e dal quale farsi difendere, un sistema alternativo che cercava di costruire una società fondata non sullo sfruttamento e la competizione selvaggia ma sulla cooperazione e il potere politico della classe lavoratrice. Nei paesi occidentali esistevano dei partiti comunisti e socialisti grandi e di peso (nonostante fossero spesso in clandestinità), realmente anti-sistema e che lottavano per l’emancipazione dei lavoratori. La Resistenza, inoltre, non nacque “a coda” dell’intervento britannico o americano: fu un fenomeno sociale indipendente che voleva inserire la lotta di classe (o, al limite, per molti dei suoi membri, la lotta per la giustizia sociale) nella cornice di una guerra in cui vi era anche un polo socialista, trascinato nel conflitto dall’espansionismo tedesco e dalla complicità degli altri paesi capitalisti.
Può essere utile notare, ad esempio, come nell’agosto del 1943, in Italia, mentre il re e il governo Badoglio valutavano ancora, per mezzo di incontri e confronti diplomatici con entrambi i lati, se continuare con l’alleanza con i tedeschi (magari con un maggiore aiuto militare da parte di Hitler o con il “permesso” di ritirarsi dalla guerra) o accettare l’aiuto degli Alleati (che ancora dovevano decidere se chiedere all’Italia una resa senza condizioni oppure darle un ruolo più dignitoso ritenendola più utile), il Comitato dei partiti anti-fascisti, il futuro Comitato di Liberazione Nazionale, il 7 agosto faceva una dichiarazione dove, in contrasto con i governi, richiedeva il ripristino delle libertà democratiche e di altri diritti sociali. In particolare, il 19 agosto le masse operaie entrarono in sciopero nei principali centri del Nord, chiedendo tra le altre cose la liberazione dei detenuti politici e la costituzione delle commissioni operaie di fabbrica.2 Gli scioperi erano stati, d’altronde, una delle principali micce del crollo del fascismo stesso del mese precedente. La resistenza italiana fu allora figlia di un movimento popolare di liberazione che non aveva nulla a che fare né col governo in carica né con gli aiuti europei e americani. Essa cominciò a cristallizzarsi quando ancora il governo italiano non era neanche certo di quale parte avrebbe scelto nel prosieguo del conflitto e quando i governi inglese e americano non erano ancora certi di voler o meno aiutare (e non sottomettere completamente) l’Italia. E questo è completamente differente dalla resistenza dell’esercito governativo ucraino che, zeppo di reparti di estrema destra, combatte dopo aver contribuito a fomentare la guerra per anni, esattamente come gli ufficiali italiani combattevano dopo aver contribuito ad estendere la guerra.
Tra le richieste dello sciopero appoggiato dai comitati di liberazione durante la Seconda Guerra Mondiale ci furono inoltre, come scrive lo storico Franco Catalano, l’immediata ed effettiva liberazione di tutti i detenuti politici, la scarcerazione degli operai arrestati di seguito agli avvenimenti recenti, l’allontanamento delle truppe dalle fabbriche, l’allontanamento dalle fabbriche degli esponenti fascisti e squadristi rimasti e l’adozione immediata di misure per la costituzione di commissioni interne di fabbrica.
Non solo, dunque, la Resistenza italiana ebbe in prevalenza un carattere di classe e non nazionalista, ovvero non semplicemente contro il nemico “esterno” ma contro quello sociale ed economico, ma chi effettivamente resisteva al nemico faceva richieste politiche talmente radicali da arrivare ad invocare il controllo operaio sulla produzione.
Confrontare questo quadro con quello politico ucraino, dove l’unica resistenza è quella delle forze armate imbottite di nazionalismo, e dove il culto di Stepan Bandera, collaborazionista di Hitler proprio durante il secondo conflitto mondiale, è ormai abbracciato acriticamente dall’intera cittadinanza occidentale ucraina, dovrebbe essere fondamentale per capire come la guerra fra due Stati di stampo fascistoide non possa assolutamente essere risolta con una scelta di campo. Quella ucraina, anche tecnicamente, non è affatto una resistenza nel senso invalso nella cultura politica italiana, essendo essa stata un movimento di lotta dal basso e non organizzato in truppe regolari da uno Stato corresponsabile dell’escalation militare in corso.
Nel movimento partigiano, in conclusione, la classe lavoratrice, che egemonizzava la gran parte delle brigate, non solo ebbe un ruolo fondamentale a livello militare ma ebbe successivamente la capacità di strutturare dei partiti che riuscirono a imporre degli elementi di riscatto sociale e di giustizia fondamentali anche nella nuova Costituzione borghese. Oggi, al contrario, lo scenario di guerra presenta solo poli imperialisti e ogni iniziativa di attacco o difesa da una parte o dall’altra, nel contesto ucraino, è univocamente in mano ad un governo legato ad un’alleanza imperialista. Di conseguenza, un intervento a sostegno di una fantomatica “resistenza” ucraina coinciderebbe nei fatti con l’appoggio militare alle istanze di uno dei contendenti nella gara al profitto e con le istanze di uno o più dei nazionalisti in guerra e, per la precisione, con l’appoggio al polo imperialista globale egemonizzato da dirigenti e uomini politici che sono stati protagonisti di crimini di guerra e stragi, come quella delle centinaia di migliaia di civili morti in Iraq (stimati fino a 1.000.000), a confronto delle quali i reporter che oggi documentano i crimini che si stanno pur commettendo in Ucraina impallidirebbero. L’appoggio militare diretto o indiretto all’imperialismo occidentale, in assenza di una sponda socialista che costituisca una prospettiva politica reale, corrisponde al favorire l’estensione presente e futura di un sistema economico che, su scala globale, rappresenta il modello più saccheggiatore e classista oggi in circolazione – oltre a deviare qualsiasi energia, propagandistica e materiale, dall’unico fronte di lotta che, coerentemente con la definizione di imperialismo, varrebbe la pena fomentare e sostenere: quello interno delle classi lavoratrici contro le rispettive borghesie in guerra. Ma per trasformare la guerra nazionalista in guerra civile occorre prima, come in passato, costruire la lotta culturale e politica contro gli opportunismi e le ipocrisie di ogni tipo.
1 – I. V. Lenin,“Il fallimento della II Internazionale” (maggio-giugno 1915), in Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 24-5.
2 – Franco Catalano, L’Italia dalla Dittatura alla Democrazia, Lerici, Milano, 1962.