Convergere per insorgere: il collettivo di fabbrica ex-gkn a Napoli per sostenere la manifestazione del 5 novembre
Da quando nel luglio 2021 è piombata sulle loro teste come un fulmine a ciel sereno la notizia del licenziamento collettivo per la dismissione dello stabilimento di Campi Bisenzio, i lavoratori della allora GKN, organizzati nel Collettivo di Fabbrica, hanno dato prova di compattezza e combattività, manifestando la volontà ferrea di allargare la singola lotta vertenziale ad un più ampio coinvolgimento proletario e popolare. Questo segnale è stato colto da allora da tante forze politiche e sindacali d’area che hanno dato sostegno ai lavoratori di Campi Bisenzio anche attraverso la partecipazione agli appuntamenti dell’Insorgiamo Tour e alle grandi manifestazioni di piazza. In vista dell’appuntamento del 5 Novembre a Napoli, ritroviamo in questa intervista Dario Salvetti, uno dei punti di riferimento del Collettivo di Fabbrica.
Buongiorno Dario. Dall’ultima intervista che hai rilasciato al nostro giornale, dopo una serie di iniziative come l’assemblea di Firenze sulla costruzione di un polo pubblico per la mobilità sostenibile, ci sono stati degli sviluppi al ministero, con l’interessamento di imprenditori come Borgomeo etc. Qual è oggi, in estrema sintesi, la situazione della ex-GKN e come vi state muovendo in merito?
Innanzitutto siamo di fronte ad un’evoluzione della tattica delle multinazionali per chiudere e delocalizzare, ormai è ufficiale che l’ex-advisor di GKN (Borgomeo, NdR), diventando proprietario e facendo finta di ritirare i licenziamenti, in realtà ha trasformato GKN-Campi Bisenzio in una fabbrica che brucia liquidità e che non ha riportato nessun tipo di lavoro. Così facendo, di fatto, tutti i nostri contratti a tempo indeterminato, i nostri diritti, la nostra contrattualistica e quant’altro sono stati sulla carta salvaguardati ma al contempo sono stati portati in una scatola vuota. Se si vuole una tattica vecchia (ma anche nuova) che al momento è saltata per il semplice fatto che al momento del ritiro dei licenziamenti l’assemblea permanente non si è sciolta, il presidio non è venuto meno, così come non è venuta meno la lotta che ha dovuto affrontare 10 mesi di pericolosissima cassa integrazione e di messa a verifica di questo nuovo proprietario per convincere tutti, anche i colleghi più titubanti, che si trattava di una finta. Oggi questo è chiaro, conclamato, e si apre un nuovo (ma vecchio) scenario, si ritorna, con 10 mesi di ritardo, alla situazione iniziale dello scorso dicembre, cioè quando noi dichiarammo che senza intervento pubblico, e senza un polo pubblico per la mobilità sostenibile, la fabbrica non poteva reggere. Oggi questa questione si aggiunge al fatto che lo stesso nuovo proprietario avrebbe ammesso, salvo poi lasciar cadere la cosa, che senza l’intervento pubblico e un accordo di sviluppo, la fabbrica non sta in piedi e di conseguenza che i fondi pubblici devono entrare in GKN. A questo punto noi ci siamo dichiarati fabbrica pubblica e socialmente integrata, che è poi il modo con cui noi coniughiamo l’idea di nazionalizzazione per far capire il più possibile ai nostri interlocutori sul territorio, e tra gli altri lavoratori, di cosa stiamo parlando. Stiamo parlando di qualcosa di totalmente diverso da una nazionalizzazione tipo Monte Paschi di Siena, Alitalia, Ilva etc.
Collegandosi a questi sviluppi, quello che avete fatto sin da subito si poneva come un’azione che potesse dare spinta e nuova linfa ad una stagione di protagonismo e manifestazioni operaie. Adesso, dopo parecchi mesi, possiamo dare per assodato questo apporto dato dai lavoratori GKN ma si ravvisa la necessità continua all’allargamento della partecipazione. Che tipo di considerazioni fai sul fatto che, per dare effettivamente forza a questi processi, c’è sempre bisogno di non fermarsi, di spingere sempre per un coinvolgimento maggiore. Cosa pensi si possa fare in tal senso?
Questo processo di convergenza è interessante. Ha dato grande prova di sé, ma è anche estremamente fragile, si scontra con alcuni limiti, che sono limiti non dovuti a una volontà soggettiva ma alla situazione oggettiva. C’è un ritardo storico del movimento operaio organizzato. C’è oggi questa convergenza a coinvolgere i lavoratori – perché in piazza, a parte studenti e disoccupati, ci sono i lavoratori – che spesso fatica a investire le strutture organizzate del movimento operaio. Il secondo limite è che a causa della frantumazione e del politicismo, che vive ancora oggi nelle tendenze classiste radicali, spesso non sono le assemblee nazionali gli ambiti dove si riesce a coltivare convergenza ma spesso lì si coltiva autoreferenzialità e passerelle. Questo fa sì che l’unico modo per mettere a verifica la reale forza, le intenzioni, il peso e la vitalità del processo, spesso sia la partecipazione alle date di convergenza, cioè mobilitazioni come quelle del 26 marzo a Firenze, il 22 ottobre a Bologna e del 5 novembre a Napoli. E’ chiaro che dover mettere a verifica attraverso delle scadenze un processo di lotta è qualcosa di impegnativo, pericoloso, si rischia di cadere nello “scadenzismo” e si rischia di pensare che l’unico modo che abbiamo di far politica sia quello di rilanciare una data dietro l’altra. La verità è che queste scadenze non si misurano soltanto nella riuscita numerica o nel loro rilancio ma anche nei processi che stimolano. Per noi dovrebbero avere queste caratteristiche: 1) cambiare i rapporti di forza, quantomeno nei territori dove queste mobilitazioni si attuano; 2) rafforzare punti di insorgenza reale, per cui a Bologna, ad esempio, possiamo dire di essere stati lì e che c’è un tema, quello del no al Passante di mezzo, che ne esce rafforzato, insieme a tutte le altre lotte che ci sono in città; 3) questo processo si deve dare comunque i tempi perché le realtà che lo promuovono si parlino, crescano e si possa creare un campo comune dove poi ognuno possa portare le proprie tesi, lotte e istanze. Quindi è un processo che al momento vive di scadenze ma si deve guardare dallo scadenzismo, dall’intergruppo e dalle assemblee fatte tanto per contarci e fare autoreferenzialità.
La manifestazione di Napoli porta ad uno sviluppo di quello che possiamo chiamare “effetto GKN” verso sud, e l’aspetto interessante è che incrocia una piazza che negli ultimi anni ha saputo distinguersi – ad es. grazie al Movimento disoccupati 7 novembre e altre realtà locali – per la sua combattività. La sensazione è che questa data di Napoli sia carica di aspettative e attenzione, potrebbe essere un ulteriore punto di svolta?
Secondo me non è un punto di svolta ma è un’ulteriore tappa di un processo che si pone come principale compito l’accumulazione di un immaginario di conoscenze, capacità programmatica e una direzione in grado di coprire uno spettro più complessivo, che partorisca una visione di mondo. Quindi sarebbe scorretto che non ci sia una tappa di convergenza che non metta l’enfasi sul problema del carovita, sul movimento dei disoccupati napoletani e in generale sulla necessità di restituire dignità alle lotte nel sud. Detto ciò ci sono altri territori dove un domani i temi prevalenti possono essere altri e altrettanto di svolta. Bologna è stata un po’ il centro, se si vuole, di una lotta contro una grande opera inutile e ha rimandato ad un altro tipo di immaginario: quello che negli anni hanno coltivato ad esempio i NoTav. Quindi, per concludere, non so se sia un punto di svolta ma sicuramente è un ulteriore processo di completamento di questo immaginario e di questa convergenza. E comunque la nostra tappa di Napoli si attiene sempre ad uno slogan che ha un suo peso: “insorgere per convergere e convergere per insorgere”. Vale a dire: ci sono dei territori dove la convergenza sviluppa nuovi rapporti di forza – perchè tornando all’esempio del “No Passante” di Bologna era un tema che viveva un po’ di stanchezza – e altri territori, come Napoli, dove la lotta dei disoccupati è in campo e la convergenza è utile per rafforzarla. Cioè stiamo cercando di sviluppare questa capacità sia di incalzare le lotte sia di accompagnare e rafforzare le lotte già attive. Se un domani si dovesse sviluppare un movimento studentesco importante e articolato su tutto il territorio è chiaro che sarebbe un ulteriore elemento di fondamentale importanza, come un po’ quello che è successo alla Sapienza in questi giorni. Sicuramente quindi per quanto riguarda la tappa di Napoli si tratta di un completamento di questo processo.
Proprio in merito alle ultime vicende della Sapienza si è visto come i giovani studenti, che molto spesso abbiamo visto alle manifestazioni GKN, hanno intonato “Occupiamola” che è diventata quasi un inno di una stagione. In merito a ciò quali considerazioni fare sui fatti dell’occupazione della Sapienza da parte degli studenti e, in generale, sul discorso relativo alla repressione. Noti qualche cambiamento, anche rispetto alla “svolta” caratterizzata dal nuovo governo?
Questo governo approfondisce dei processi già in atto che sono stati preparati dai governi precedenti ma che in realtà sono preparati dall’intero sviluppo della società e dalla crisi sociale in atto, tutto ciò naturalmente spinge nella direzione anche di un maggiore repressione. Noi non cadiamo dal pero per le manganellate alla Sapienza, anche perché si mancherebbe rispetto agli studenti torinesi che i manganelli li hanno presi nella stagione del governo Draghi. Quindi la repressione verso gli attivisti e il movimento studentesco non nasce oggi. Per quanto riguarda il fatto che il nostro coro sia stato cantato dagli studenti della Sapienza, così come per un anno è stato cantato dai disoccupati napoletani, è una cosa che ci fa piacere per due motivi: il primo è che, seppur ci fermassimo domani con la chiusura di GKN, possiamo dire che, sì, una multinazionale ha delocalizzato una fabbrica ma questa fabbrica ha lasciato un segno nell’immaginario collettivo, almeno di un settore importante di attivisti, e quindi da semplice operaio mi viene da dire che gliel’abbiamo fatta pagare, in un certo senso; l’altro motivo, senza voler esagerare la portata di questo fatto, è che una generazione di studenti canta “occupiamola” e capisce che questo non è soltanto un canto per l’occupazione di un’università, una scuola o uno spazio sociale ma sono consci che là fuori c’è una fabbrica contesa al padrone, mezzi di produzione contesi al capitale. E’ un dato che ci sembra molto importante. Per il resto sulla Sapienza noi, durante l’Insorgiamo tour, siamo stati a Roma la scorsa primavera, e lì si sentiva che c’era un processo di crescita importante. Quindi noi insistiamo nel dire che al di là dei meriti e dei demeriti soggettivi di GKN, riteniamo che c’è un processo oggettivo che sta andando avanti nel paese, qualcosa sta accadendo. Forse il ciclo della lotta di classe in questo paese, dopo anni di riflusso, si sta riallineando a quanto accade in altri paesi a livello internazionale. Siccome l’automatismo nella storia non esiste, cerchiamo di non buttare via questa occasione.
Per concludere, un’ultima domanda che si ricollega alla questione della repressione e della violenza che si acuisce non soltanto a livello interno ma anche a livello internazionale. Ogni giorno dal tema caldo del conflitto in Ucraina ad altri conflitti meno riportati dai media ma sempre presenti, dalla Palestina, Yemen etc… vediamo una centralità della questione della guerra. Storicamente la guerra è un tema che da un lato può dividere ma dall’altro essere anche uno spunto per un rilancio del movimento operaio. A tuo giudizio che impatto può avere la guerra – una questione molto pressante sulle vite quotidiane di lavoratori, disoccupati e studenti – rispetto a una spinta di agitazione?
La guerra si pone sempre in rapporto alle lotte sociali come potente rallentatore perché inibisce, immobilizza e confonde. Tuttavia essendo una parte di questo sistema, la guerra è uno degli strumenti con cui il capitalismo prova a contorcersi nella propria crisi, e poi è in grado di produrre improvvise accelerazioni. Attualmente la crisi inflattiva, occupazionale, dei mutui, gli aumenti della povertà etc., non sono generati di per sé dalla guerra, quest’ultima tuttavia li accelera. Rispetto a quello che succede in Ucraina e nel mondo noi abbiamo il compito di dire che è in atto una escalation bellica mondiale, fra blocchi, e questa escalation trascina e trascinerà il mondo in una catastrofe, non penso necessariamente nucleare ma prendo atto che siamo davanti anche a uno sdoganamento di questa eventualità, come se fosse una cosa pensabile. Di fronte a tutto ciò noi come movimento operaio abbiamo il compito di non farci arruolare dentro questa corsa al nazionalismo e al riarmo, e su questo ci vuole una intransigenza che non lasci spazio a “se” o “ma”.