La questione palestinese non riguarda solo la Palestina
Implicazioni mondiali del più grande genocidio del XXI secolo
Il 7 ottobre 2023 con l’inizio l’“operazione alluvione Al-Aqsa”, non casualmente programmata per il giorno del cinquantesimo anniversario dello scoppio della guerra arabo-israeliana del 1973, la questione palestinese è tornata al centro delle cronache di tutto il mondo. Da quel giorno la reazione israeliana ha colpito indiscriminatamente, facendo carne da macello dei civili nella striscia di Gaza e distruggendo più della metà degli edifici. La catastrofe umanitaria è senza precedenti in quel fazzoletto di terra e le ostilità contro i civili non sembrano accennare ad attenuarsi nel momento attuale in cui le forze militari israeliane stringono d’assedio la città di Gaza.
In questo contesto non è possibile astenersi dall’esprimere la massima solidarietà e sostegno internazionalista al popolo palestinese, che nel silenzio fazioso, quando non apertamente osteggiati, dei media occidentali, subiscono un genocidio come non se ne erano mai visti nel XXI secolo che ha l’obiettivo, neanche troppo celato, di produrre una diaspora palestinese dai territori della prigione a cielo aperto della striscia di Gaza. Il popolo palestinese vive ormai da più di settanta anni sotto un regime di occupazione, privato dei più basilari diritti e costretto a subire le impunite angherie dei coloni. Di fronte a tutto questo non c’è ragionamento che tenga se non si riconosce il diritto del popolo palestinese alla resistenza e alla ribellione contro l’occupazione, se non si riconosce il diritto del popolo palestinese all’autogoverno, alla gestione delle proprie risorse, alla fine dell’oppressione, alla fine dell’apartheid. Di fronte alla normalizzazione del colonialismo israeliano nella Cisgiordania e alla segregazione della striscia di Gaza il sostegno alla resistenza palestinese e in particolare alle forze laiche e progressiste non è questione di dibattito.
In Palestina però non si gioca in questo momento solo la partita del popolo palestinese. Le forze in campo sono inserite all’interno di un sistema di fitte relazioni interstatali e alleanze politico-economiche in competizione le une con le altre. Il clima di scontro internazionale si fa sempre più teso, esacerbato da conflitti in varie parti del mondo (Ucraina in testa) e la questione palestinese rischia di tramutarsi in una miccia in grado di generare un salto di qualità nell’estensione delle ostilità. Proviamo in questo articolo a tracciare i confini dell’escalation in atto, analizzando gli attori internazionali in gioco, i loro interessi confliggenti, la tendenza generalizzata alla guerra e i possibili sviluppi. Non si tratta di un’analisi predittiva ma di un approfondimento di analisi utile a orientarsi in ciò che sta accadendo in Medio Oriente e nel mondo.
La proporzione del genocidio
Il primissimo elemento da denunciare e da prendere in considerazione è la spropositata e senza precedenti reazione israeliana che ha intrapreso un massacro indiscriminato degli abitanti della striscia di Gaza. La risposta agli attacchi a sorpresa del 7 ottobre non si è fatta attendere, raggiungendo ad inizio di novembre almeno 12.000 obiettivi colpiti. Si tratta della campagna di bombardamenti più intensa nella storia recente (dal 2008 Israele ha compiuto 5 grosse operazioni militari di attacco a Gaza).
Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha parlato di più di 10.000 bombe sganciate su Gaza, Euro-Med Human Rights Monitor ha stimato una resa di almeno 25 chilotoni che, per dare un ordine di grandezza, si possono paragonare ai 21 chilotoni della bomba nucleare Fat Man sganciata dagli USA su Nagasaki nel 1945.
Per dare delle dimensioni della tragedia, Gaza è uno dei posti più densamente popolati della terra, comparabile a Hong Kong: più di 2,3 milioni di persone sono stipate in 365 km2, per capirsi una superficie intermedia tra quella del comune di Venezia e quella del comune di Brindisi ma con una densità abitativa almeno 10 volte maggiore, composta tra l’altro per oltre il 65% di persone sotto i 24 anni e un tasso di disoccupazione del 45%.
I numeri delle vittime sono in continuo aumento, quindi qualsiasi dato è destinato ad essere rapidamente obsoleto. Alla data di stesura di questo articolo si contano almeno 11.000 morti palestinesi (fonte: Ministero della Salute, Gaza), di cui il 68% donne e bambini, a questa raccapricciante statistica bisogna aggiungere almeno 3600 dispersi probabilmente sotto le macerie, e più di 27.000 feriti. Si parla di più di 10.000 edifici distrutti che comprendevano 41.000 unità abitative, praticamente il 45% del totale delle abitazioni di Gaza. L’approvvigionamento alimentare è severamente compromesso, ad oggi l’unico mulino ancora in piedi non può operare per mancanza di corrente elettrica, il consumo di acqua è crollato del 90% e la maggior parte degli impianti fognari è guasto.
Particolarmente grave è il bilancio delle strutture sanitarie e scolastiche, con almeno il 51% delle scuole e 130 presidi sanitari distrutti, tra cui 18 ospedali: vuol dire un 50% di sanità sotto le macerie tra cui i due terzi delle strutture di medicina di emergenza, insieme ad almeno 200 medici morti. Da citare all’interno di questa macabra statistica l’attacco all’ospedale Al-Ahli Arab (detto anche l’ospedale Battista) del 17 ottobre, con 471 morti (fonte: Ministero della Salute di Gaza, mentre la diocesi anglicana parla di 200 vittime, secondo fonti USA invece un numero compreso tra 100 e 300) e una scia di fake news della stampa borghese filo-atlantista per tentare di coprirne la responsabilità.
A Gaza operavano moltissime strutture di aiuto umanitario: si stima che siano state distrutte almeno 50 postazioni dell’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) per un totale di 102 operatori umanitari uccisi, il numero più alto della storia di vittime del personale UN in una guerra, numero a cui si è arrivati in un solo mese di conflitto.
Tutto questo all’interno di una gigantesca prigione a cielo aperto, in cui i valichi verso l’esterno sono bloccati (incluse le vie di mare), impedendo la fornitura di elettricità, acqua, cibo e medicinali, eccetto quello verso l’Egitto che è parzialmente aperto, ma che ha visto numerosi convogli umanitari venire bombardati da Israele appena attraversato il confine.
I residenti del centro città di Gaza, in questo momento accerchiata dalle forze israeliane, cercano rifugio verso sud con almeno 1,5 milioni di sfollati, che (nonostante l’invito irricevibile e inattuabile israeliano di cercare rifugio verso sud) continuano comunque ad essere bersagliati dagli attacchi aerei che si concentrano in particolare sul tagliare qualsiasi tipo di aiuto umanitario. Quanto stiamo vedendo a Gaza non era successo nemmeno nelle più cruente aggressioni americane nel Medio Oriente: di fatto uno degli eserciti meglio armati del mondo sta bombardando indiscriminatamente milioni di civili, scegliendo di far terra bruciata delle loro vite, delle loro case dietro la giustificazione di dover colpire alcune migliaia di terroristi.
Intensi scontri si sono verificati anche in Cisgiordania, un territorio in questo momento formalmente amministrato dall’Autorità Nazionale Palestinese ma pesantemente occupato da insediamenti illegali dei coloni israeliani, con tutto l’annesso umiliante di checkpoint, strade vietate ai palestinesi e raid continui di squadracce sioniste contro luoghi di preghiera islamici. Le forti proteste contro il massacro a Gaza, concentrate in particolare a Jenin, hanno visto nascere numerosi scontri a fuoco che hanno provocato circa 180 morti palestinesi.
Dall’altro lato le fonti israeliane hanno riconosciuto ufficialmente più di 1.100 morti e 5.400 feriti: 260 vittime solo al tristemente noto Nova Festival il 7 ottobre (il rave organizzato a poco più di 3 chilometri dal confine con la Striscia di Gaza) mentre altri all’interno di scontri nei kibbutz (località di Sderot, Netivot, Ofakim, Rim) dove, tra militari israeliani, coloni pesantemente armati e guerriglieri palestinesi, la dinamica degli scontri è per ora ancora confusa e numerosi episodi di fuoco amico e l’utilizzo di scudi umani da parte israeliana sembrano essersi verificati. Inoltre ci sono ancora circa 239 ostaggi israeliani e stranieri che sono stati catturati e riportati nella Striscia.
Di fronte a questo massacro il mondo è praticamente inerte e inascoltate rimangono le centinaia di manifestazione in tutto il mondo che, attraverso le voci di milioni di persone, chiedono il cessate il fuoco e la liberazione dei territori palestinesi dall’occupazione sionista. L’inerzia dei potentati del mondo però non nasconde indifferenza, al contrario. Lo scenario mediorientale è una polveriera pronta ad esplodere, le tensioni internazionali sono sempre più forti e gli interessi nell’area di vitale importanza sia per il blocco euro-atlantico, che per quello dei BRICS. Ma cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
La tendenza alla guerra generalizzata
Innanzitutto, è necessario contestualizzare quanto sta avvenendo in Palestina all’interno del contesto più generale di intensificazione degli scontri a livello internazionale e di pesante riarmo di tutte le principali potenze militari del mondo. La guerra in Ucraina ha comportato un deciso inasprimento delle tensioni inter-imperialistiche con una frattura più netta tra l’alleanza euro-atlantica e i paesi “emergenti”, primi tra tutti quelli che appartengono ai BRICS, a ciò si aggiunge un clima di normalizzazione del ricorso alla guerra nel dibattito pubblico, in cui si è tornati candidamente a parlare dell’eventualità atomica. Altri conflitti localizzati come quello del Nagorno-Karabakh invaso dell’Azerbaigian e passato sui media occidentali sotto silenzio ci consegnano una situazione tutt’altro che stabile in grado di prendere accelerazioni da un momento all’altro. A questo contesto generale di contrapposizione internazionale, in cui come vedremo più avanti tutti gli attori mediorientali sono immersi, si somma per quanto riguarda la Palestina la questione religiosa e etnica su cui le classi dominanti israeliane e dei paesi arabi hanno fatto grandemente ricorso a livello propagandistico e che prepara il terreno dello scontro dal punto di vista ideologico, disumanizzando il nemico e trasformando lo scontro in volontà di sterminio. Particolarmente indicativa da questo punto di vista è la propaganda israeliana, portata avanti a suon di video su Tiktok e di influencer che di fronte al massacro scherniscono le vittime, le disumanizzano, giocano con il loro dolore, rendendo quanto mai evidente i meccanismi di banalizzazione del male che sono essi stessi presupposto imprescindibile, a livello di consenso e opinione pubblica, del massacro.
La tendenza alla guerra è fatta anche di questo non solo delle condizioni di tensione economica e militare, ma anche di un’assuefazione al conflitto e alle immagini di guerra che è indispensabile per costituire un ambiente sociale che accetti il ricorso alle armi.
In questo senso può anche essere letta la strategia israeliana di minacciare anzitempo l’invasione di Gaza via terra, rimandandola continuamente e saggiando in quei giorni il clima internazionale e le possibilità di un estendersi del conflitto. Dal 28 ottobre invece, con l’annuncio di Netanyahu la terribile prospettiva dell’invasione della Striscia si è trasformata in realtà, e Israele ha saputo dosare opportunamente le tempistiche della rappresaglia di modo da scongiurare il coinvolgimento diretto di altri paesi arabi al fianco della causa palestinese. Ciò ha lasciato sostanzialmente mano libera alle forze armate israeliane, nonostante avrebbe potuto rappresentare una scintilla per un’escalation enorme in tutto il Medio Oriente. Questo rischio Israele sa di correrlo, e ad oggi Israele ha avviato l’accerchiamento del centro città di Gaza, avendo avuto l’accortezza di aspettare le migliori condizioni diplomatiche possibili, cioè la sicurezza sull’assenza di espansione del conflitto con i paesi arabi. I negoziati e raffreddamenti ad opera delle diverse potenze che non ritengono utile l’escalation immediata e brutale, mostrano la preferenza per una “diluizione” temporale-spaziale dell’obiettivo di cancellare i palestinesi da Gaza (Israele parla di un’operazione della durata di un anno) che sarebbe più funzionale anche alle dinamiche mediatiche di giustificazione del conflitto.
In questa situazione le conseguenze di un’escalation sarebbero incontrollabili e tutti gli sviluppi del massacro in Palestina potrebbero essere delle potenziali “micce”. Chiaramente la forma precisa che potrebbe caratterizzare l’acuirsi dello scontro interimperialista in questo momento non è possibile da prevedere, ma la tendenza del capitalismo alla guerra per uscire dalla crisi distruggendo le forze produttive, per far ripartire cicli di accumulazione, si presenta in maniera evidente. Lo scacchiere internazionale risulta però ad oggi estremamente complesso e contraddittorio, difficile da decifrare nel suo sviluppo. Nei prossimi paragrafi cercheremo di analizzare posizioni e interessi dei principali attori in gioco.
Il ruolo degli USA e degli alleati europei
Gli USA e le nazioni dell’asse euro-atlantico, pur mal sopportando l’aumento delle tensioni in Medio Oriente, sono sostanzialmente disposti ad accettare la strategia israeliana di pulizia etnica in Palestina, mascherata da “guerra contro il terrorismo”, cercando al contempo di contenere gli aspetti più impresentabili di strage di civili per timore che la situazione possa sfuggire di mano.
Se con l’invasione russa in Ucraina nel febbraio 2022 i rapporti tra USA e Israele si erano un po’ raffreddati, dal 7 ottobre 2023 le reazioni russe di critica a Israele hanno sicuramente contribuito ad un riavvicinamento tra la potenza nordamericana e lo stato ebraico, testimoniato anche dall’invio di due portaerei nella regione (accompagnate da almeno 3 navi da guerra italiane). Tale sostegno militare più che un supporto nelle operazioni (supporto di cui Israele non necessita) deve essere letto probabilmente come la volontà USA di avere più voce in capitolo e controllo sullo svolgimento della crisi in Medio Oriente. Le preoccupazioni statunitensi ed europee riguardano, infatti, la possibilità che l’estendersi del conflitto avvenga al di fuori delle loro volontà e previsioni e non tanto per un’attenzione ai diritti umani. D’altra parte gli stessi USA e Europa usarono una propaganda simile a quella israeliana di lotta al terrorismo per attaccare la Siria e l’Iraq (vedi ad esempio la proposta di Macron). Israele è un alleato indispensabile in quell’area e non può essere sacrificato sull’altare dei diritti umani, di cui l’occidente si fa alfiere a parole e demolitore nei fatti.
Questo è evidente, anche, alla luce del veto alla risoluzione ONU proposta dal Brasile che chiedeva il cessate il fuoco per motivi umanitari, e dell’analogo veto alla risoluzione ONU, proposta dalla Giordania, di tenore analogo. In quest’ultima votazione tra l’altro si legge anche una sensibilità strategica differente tra i paesi europei, arrivati in ordine sparso e divisi tra l’approvazione per Francia, Spagna, Belgio, Portogallo e l’astensione di Germania, Grecia e Italia. Al contrario si registra una solidità maggiore per i BRICS che votano compatti ad eccezione dell’astensione indiana. Ciononostante, il posizionamento in queste votazioni non è di solito particolarmente indicativo rispetto alla salute delle alleanze.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, le espressioni di pieno sostegno alla campagna militare di Israele della presidente della Commissione Europea Von der Leyen sulla questione invece si è spinto ben oltre i poteri attribuiti alla Commissione dai trattati, che non prevedono la rappresentanza in materia di politica estera. Le proteste di alcuni paesi tra cui l’Irlanda hanno costretto alla dichiarazione del 15 ottobre da parte del Consiglio Europeo che, riprendendo quella dell’Alto rappresentante per gli affari esteri Josep Borrell, rappresenta una linea più cauta sottolineando l’appoggio a Israele ma “in linea con il diritto umanitario e internazionale”.
L’Europa in tutto questo gioca un ruolo, se vogliamo, anche marginale, soprattutto dal punto di vista militare: gli eserciti europei non sembrano essere pronti a uno scontro (quello unico europeo è ormai solo presente nelle leziose discussioni di Bruxelles) visto anche l’impegno in Est Europa, le economie del Vecchio Continente sono ancora meno pronte a schierarsi militarmente sul campo in difesa di Israele in un potenziale conflitto coi paesi arabi. A questo si aggiunge una difficile gestione dell’opinione pubblica. In molto paesi con una forte presenza della diaspora palestinese e in generale con forte presenza araba e islamica come Francia, Inghilterra e Germania, l’ondata di mobilitazioni è stata consistente e ha rimesso il focus sulla questione palestinese, con un incremento della tensione interna che i governi europei nella situazione di crisi capitalistica non vogliono e possono permettere.
La reazione del mondo arabo al genocidio palestinese
Alcuni paesi della regione sono particolarmente toccati dal conflitto per ragioni storiche di scontro con lo stato di Israele e di appoggio, seppur opportunistico, alla causa palestinese e/o ad alcuni dei suoi attori. Bisogna in questo caso, sottolineare però, che la questione palestinese è sempre stata utilizzata da questi stati quali l’Iran, la Siria e il Libano, la Giordiania e l’Egitto (ma anche Emirati Arabi e Arabia Saudita) come un pretesto per opporsi alla presenza israeliana nell’area senza che ciò si traducesse in una reale attenzione alle sorti della popolazione palestinese. D’altro canto alcuni di questi paesi sono governati da forze politiche borghesi, reazionarie e religiose che applicano regimi di discriminazione etnica e religiosa simili a quanto denunciato nei confronti di Israele. La causa palestinese è stata spesso una scusa, un casus belli per gli interessi geopolitici dell’area, e questo fenomeno si è definitivamente consolidato venendo a mancare il campo socialista alla fine del XX secolo.
Al momento però, al di là delle dichiarazioni, l’atteggiamento dei paesi arabi sembra di attesa inerme e più passano le settimane più quello che sta succedendo in Palestina desterà meno scalpore anche nel mondo arabo.
L’Iran, in particolare, pur prendendo le difese dell’attacco portato avanti da Hamas e dalla resistenza palestinese il 7 ottobre, ha affermato in seguito di non avere nulla a che fare con la preparazione dell’offensiva e sembrerebbe non voler farsi coinvolgere direttamente, evitando una generalizzazione del conflitto. Per ora le minacce di intervento a seguito dell’invasione di terra di Gaza (da parte del ministro degli affari esteri Hossein Amir-Abdollahian) rimangono sulla carta, nonostante non si possa escludere che un’escalation improvvisa non cambi le carte in tavole. L’Iran, infatti, ha da tempo un network di relazioni in funzione anti-Israele con i gruppi palestinesi Hamas e Jihad Islamica, i gruppi sciiti in Iraq, il governo siriano e il movimento yemenita Ansarullah (detto anche degli Huthi) ma soprattutto con gli Hezbollah libanesi.
Questi ultimi infatti sono sicuramente l’attore regionale “preferenziale” per l’Iran (i rapporti invece con Hamas sono peggiorati dopo l’appoggio alle fazioni ribelli all’interno della guerra civile in Siria), meglio armati e addestrati secondo fonti USA, e minaccerebbero infatti di aprire un secondo fronte per le forze israeliane nel nord: il conflitto in questa regione, dormiente dal 2006 dopo la fine delle ostilità legate all’occupazione israeliana del 1982, per ora sembra limitarsi allo scambio di colpi d’artiglieria e razzi, con circa 8 morti da parte israeliana e almeno 80 persone da parte libanese e palestinese. Tra questi tre bambine con la nonna e un giornalista della Reuters. Da parte israeliana non si fa certo mistero della volontà di risolvere una volta per tutte anche questa questione.
Anche la Siria ha una storia di relazioni conflittuali con Israele, subisce tutt’oggi l’occupazione illegale delle alture del Golan che va avanti dal 1967 e ha subito numerosi attacchi a stretto giro dopo il 7 ottobre: ad esempio il 12 sono stati colpiti gli aereoporti di Damasco e Aleppo, con il motivo di interrompere gli snodi logistici importanti per l’Iran. Nel recente passato, durante più di un decennio di guerra civile in Siria, Israele ha lanciato centinaia di attacchi aerei, colpendo principalmente i combattenti di Hezbollah e altre forze sostenute dall’Iran, nonché le posizioni dell’esercito siriano.
Il tentativo di destabilizzazione in Siria, al netto della vicenda tragica vissuta dal popolo siriano, si è concluso con un ri-consolidamento del regime di Damasco, e una forte ascesa della presenza e capacità logistiche e militari russe nella regione: contro Iran e Siria si articola in particolare la strategia regionale del blocco imperialista a guida USA.
Le dinamiche che si stanno delineando quindi, con le minacce (cadute nel vuoto) di intervento militare contro Israele da parte dei falsi amici della Palestina nella regione, sembrano confermare la volontà degli attori regionali di evitare l’escalation: anche a seguito dell’inizio dell’invasione di terra israeliana nella Striscia (più volte rimandata, forse anche con l’intenzione di “sgonfiare” le possibili reazioni) le reazioni sono state timide, a nessuno interessa realmente dello sterminio del popolo palestinese, e specialmente Gaza sembra sacrificabile all’interno nel contesto del processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli stati arabi, che per ora sembra aver subito uno stop solo temporaneo.
La strategia dietro l’operazione alluvione Al-Aqsa
L’operazione militare del 7 ottobre rientra pienamente nella natura contraddittoria dei rapporti tra stati arabi nella zona e non potrebbe essere comprensibile sul piano strategico militare se osservato solamente nell’ottica di raggiungere una soluzione alla questione palestinese. Da questo punto di vista, infatti, l’azione di rappresaglia israeliana era immediatamente preventivabile così come il risultato di una guerra aperta con le forze dello stato ebraico. Ciò che appare più probabile è che dietro la scelta di Hamas ci fossero considerazioni più ampie e geostrategiche di opposizione alle normalizzazioni dei rapporti di alcuni paesi arabi quali Arabia Saudita, Emirati Arabi e Oman con Israele. Considerazioni alle quali sono stati sacrificati, nei fatti, gli interessi del popolo palestinese. L’attacco del 7 ottobre deve essere considerato anche nell’ottica degli interessi regionali iraniani: questo non implica un giudizio sostanziale di etero-direzione però, di cui tra l’altro non ci sono prove, vista anche la scarsa preparazione delle reazioni dal lato iraniano. Come già detto, l’Iran ha dichiarato di non avere nulla a che fare con l’attacco scattato il 7 ottobre ma lo accoglie positivamente e non è da escludere una collaborazione dietro le quinte; tuttavia, ci permette di leggere gli avvenimenti in una chiave più ampia di quella limitata della campagna militare. Non esiste infatti in questo momento una capacità offensiva da parte della resistenza palestinese, non c’è e non sembra esserci all’orizzonte nessun avanzamento militare concreto o una parola d’ordine precisa se non quella della sopravvivenza immediata, di fronte al peggioramento della politica israeliana degli ultimi anni a Gaza.
Non a caso, la comprensione di questo fatto è perfettamente chiara all’apparato militare israeliano, che come già citato in precedenza ha immediatamente attaccato gli snodi logistici iraniani in Siria. La coalizione che si è venuta a creare tra le forze della resistenza in Palestina, infatti, ha una strategia pressocché inesistente per la soluzione della questione palestinese, ma si presta ad una lettura più chiara all’interno della strategia iraniana nello scontro tra i paesi arabi e trale le allenze imperialistiche mondiali. Infatti negli ultimi anni si è avviato un processo di avvicinamento e distensione delle relazioni tra gli stati arabi e Israele.
Normalizzazione dei rapporti arabo-israeliani
L’irrisolta questione nazionale e coloniale in Palestina è sicuramente un aspetto centrale degli scontri politico-economici in Medio Oriente, tuttavia, la maggior parte dei paesi arabi ha ormai allentato molto la tensione diplomatica con Israele.
La normalizzazione dei rapporti tra stati arabi e Israele è emersa specialmente dalla Conferenza di Varsavia del febbraio 2019, un’operazione guidata dagli USA, dove il capofila arabo è sicuramente l’Arabia Saudita e a cui vi partecipano gli Emirati Arabi Uniti e l’Oman. Questo nuovo corso si inserisce all’interno della dinamica di guerra per procura tra la potenza saudita e l’Iran, che vede i due paesi sui lati opposti dei conflitti in Siria, Yemen e Libano, ma anche nella dinamica dello scontro religioso sciiti-sunniti in cui i due paesi si intestano un ruolo di leadership religiosa (sciiti – Iran, sunniti – Arabia Saudita).
Israele nel febbraio 2020 ha anche normalizzato i rapporti diplomatici col Sudan, Barhein e Marocco, e successivamente con gli Emirati Arabi Uniti tramite gli accordi di Abramo (su questo, di più nel prossimo paragrafo). Rilevante per l’Italia il ruolo di mediatore svolto dal ministro degli Esteri Antonio Tajani tra Israele e la Libia, in un tentativo di normalizzare anche queste relazioni diplomatiche, tentativo accolto negativamente dall’opinione pubblica libica.
Dopo la Conferenza di Varsavia del 2019 l’evento chiave per la normalizzazione dei rapporti arabo-israeliani è rappresentato dagli Accordi di Abramo, siglati nel 2020 tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein (“satellite” saudita) e Stati Uniti (successivamente Marocco e Sudan). Questi accordi, fortemente voluti dall’amministrazione Trump (“l’accordo del secolo”) e nati a seguito del fallimento dell’accordo sulla questione palestinese (che prevedeva la “legalizzazione” del controllo israeliano sul 30% della Cisgiordania), si inseriscono nella strategia USA di contrasto all’Iran e al ruolo regionale della Cina, proponendo anche progetti alternativi a quello logistico-commerciale della Belt and Road: il Medio Oriente è infatti una regione critica per i progetti cinesi di accesso al mercato europeo. Da questi accordi è stata esclusa l’Algeria, poiché essa è in contesa col Marocco per il controllo del Sahara occidentale, ricco di gas. Gli USA infatti hanno tutto l’interesse a presentare percorsi alternativi alla Nuova Via della Seta anche solo allo scopo di rallentare i piani del blocco imperialista concorrente.
Il ruolo dei BRICS e la posizione della Cina
In questo scacchiera di contese si inserisce un ulteriore elemento di contraddizione rappresentato dagli interessi regionali della Cina e del raggruppamento dei BRICS. Nell’agosto del 2023, infatti, l’allargamento dei BRICS ha portato allo storico ristabilimento delle relazioni politiche tra Arabia Saudita e Iran, attraverso l’integrazione di entrambi i paesi nei BRICS+ (che includono anche gli Emirati Arabi Uniti) per mezzo della mediazione della Cina. Questa integrazione fa seguito all’ingresso dei sauditi come paese partner all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) nel marzo 2023.
I nuovi ingressi nel gruppo dei BRICS, con 6 nuovi membri su 22 richiedenti, fanno sì che il gruppo ormai detenga una quota del PIL mondiale superiore a quella dei paesi del G7. Gli scambi commerciali tra il regno saudita e i BRICS sono raddoppiati da 81 miliardi di dollari nel 2017 a 160 miliardi nel 2022: in alcuni settori il regno non può fare a meno della Cina, specialmente per quanto riguarda l’alta tecnologia, l’AI e i minerali strategici (le terre rare, critiche ad esempio per i veicoli elettrici), ma anche il supporto nel tentativo di vedersi assegnato l’Expo 2030. In tal senso, il ministro saudita degli Investimenti Khalid Al-Falih ha dichiarato che il mondo multipolare è “oramai emerso, non più emergente”.
Sicuramente l’avvicinamento tra Arabia Saudita e Iran ha messo la Cina al centro del palcoscenico delle relazioni in Medio Oriente, ma l’approccio dimostrato dal governo di Xi Jinping è molto diverso da quello dei paesi euro-atlantici. La Cina non ha effettuato visite ufficiali nella regione dal 7 ottobre, è stato chiesto un cessate il fuoco ed è stato sottolineato come l’origine del conflitto “risiede nel fatto che non è stata fatta giustizia al popolo palestinese” e che la “punizione collettiva” dei palestinesi deve finire. Di fatto l’approccio scelto è molto cauto e si evidenzia come, nonostante l’incremento di attività diplomatica cinese in Medio Oriente, questo non si è tradotto in un ruolo di mediazione per il paese asiatico nel conflitto.
Nonostante l’appoggio alla causa palestinese nel periodo di Mao, la Cina dagli anni 1990 ha avviato fitti rapporti con Israele, investendo miliardi di dollari nella sua economia (gli investimenti nei territori palestinesi sono trascurabili) e l’interdipendenza anche militare è andata accrescendosi notevolmente: Israele è il secondo fornitore di armi della Cina dopo la Russia (lo stato ebraico non aderisce infatti alle sanzioni militari occidentali al paese asiatico). Niente in confronto con le relazioni economiche sino-saudite: il commercio tra i due Paesi ha raggiunto i 106 miliardi di dollari nel 2022, quasi il doppio del commercio tra Arabia Saudita e Stati Uniti; la Cina è anche il principale acquirente di petrolio saudita e iraniano.
Le imprese cinesi inoltre stanno gestendo importanti progetti infrastrutturali in Israele: lo Shanghai International Port Group si è aggiudicato un contratto di 25 anni al porto di Haifa, mentre il China Harbour Engineering Group ha vinto un appalto simile per il terminal di Ashdod; questi terminal sono anche adiacenti alle basi militari della marina israeliana.
Anche sull’hi-tech l’interdipendenza sino-israeliana si fa sentire: Toga Network è il centro di ricerca e sviluppo del gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei, mentre anche Alibaba, ChemChina, Peacock, Lenovo e Xiaomi hanno investito in Israele, soprattutto in aziende che si occupano di cloud computing, intelligenza artificiale, semiconduttori e reti di comunicazione. Il settore hi-tech israeliano ha imparato a sfruttare le opportunità del mercato cinese, con scarsa considerazione degli impegni con gli USA per quanto riguarda il divieto di trasferire tecnologie ai partner cinesi.
Ciononostante, forse è questo l’asse più fragile dopo l’accelerazione delle tensioni regionali, in quanto (almeno per quanto riguarda le parti pubbliche dell’accordo) all’interno dei BRICS+ Iran e Arabia Saudita si sono impegnati solo in una non-ingerenza negli affari reciproci.
La situazione attuale dopo il 7 ottobre
L’inasprimento del conflitto sulla questione palestinese dal 7 ottobre in poi ha avuto un effetto pesante su queste relazioni diplomatiche: l’Arabia Saudita ha interrotto i negoziati con Israele; perfino gli Emirati Arabi Uniti, stretti alleati di Israele e degli Stati Uniti, dopo le violenze di Israele a Gaza, hanno adottato una posizione pubblica di critica allo stato ebraico.
Ad oggi, a seguito di questi raffreddamenti delle relazioni diplomatiche, il percorso di normalizzazione arabo-israeliano sembra incerto. Difficilmente le potenze arabe regionali tornerebbero indietro in maniera radicale sul riavvicinamento a Israele (fortemente voluto dagli USA), ne risulterebbero indebolite. Ad esempio è critico per l’Arabia Saudita l’ok statunitense per lo sviluppo della tecnologia nucleare, in concorrenza con quella iraniana: inoltre ogni passo indietro saudita significherebbe un varco che si apre con l’eterno alleato-rivale degli Emirati Arabi Uniti anche per quanto riguarda le sopra-citate vie commerciali.
L’11 novembre il vertice straordinario della Lega Araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci) a Riyad si è concluso con il sostanziale isolamento del tentativo iraniano di coinvolgere gli altri paesi arabi in una posizione più drastica nel conflitto.
Altre reazioni sono state quelle della Bolivia e del Sudafrica che hanno rotto i rapporti diplomatici con Israele; inoltre ulteriori stati latinoamericani come la Colombia, il Cile e Honduras hanno richiamato gli ambasciatori, anche il Ciad in Africa, ma la criticità maggiore per Israele è l’aggravarsi delle relazioni con Bahrein, Turchia e Giordania. Questa vicenda sta seriamente facendo regredire gli sforzi compiuti da Israele negli ultimi anni per stabilire relazioni con molti paesi tra cui alcuni che lo hanno boicottato per decenni. Rimane tutto da stabilire (e non sembra essercene traccia) se questa levata di scudi, forse più formale che reale, possa spingere gli USA e Israele ad accettare almeno un cessate il fuoco.
Una delle motivazioni dietro l’azione di Hamas all’interno della resistenza palestinese nell’organizzazione degli attacchi del 7 ottobre potrebbe essere anche quella di sabotare, in qualche modo, questo sviluppo diplomatico. Questa analisi si ritrova anche nel giudizio della giornalista Paola Caridi, che parla della possibilità di “Hamas schiacciata da una politica regionale che potrebbe essere incline a sacrificare Gaza”.
Come già detto prima, uno dei punti d’arrivo possibili delle dinamiche del conflitto in corso, tenendo conto dello scontro globale e della normalizzazione dei rapporti arabo-israeliani di cui si è discusso, è sicuramente quella che vede la causa palestinese (o, addirittura, anche l’esistenza fisica del popolo palestinese) sacrificata sull’altare della ridefinizione dei rapporti tra i paesi dell’area. L’integrazione di paesi-chiave della regione nei BRICS, ma anche i possibili nuovi ingressi in altri scenari di tensioni internazionali, potrebbe portare all’aumento del numero delle linee di faglia del conflitto tra grandi campi imperialisti in contrapposizione tra loro. La situazione in Medio Oriente pur presentando le sue peculiarità religiose e storiche si inserisce in questo quadro mondiale di intensificazione del conflitto che indipendentemente da dove incontrerà il punto di rottura è sempre più avviato lungo un piano inclinato sul quale è sempre più difficile rallentare. In questo scontro generalizzato, oggi, è il popolo palestinese a pagare il prezzo più alto.