La frequenza con cui in questi anni eventi climatici estremi stanno colpendo diverse regioni del nostro paese sta dimostrando la fondamentale importanza del tema del consumo di suolo, della gestione del territorio e della prevenzione dei danni ambientali.
Proprio con riferimento a queste tematiche, lo scorso 3 dicembre l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha presentato, presso la sua sede di Roma, il Rapporto “Consumo di Suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici – edizione 2024”, a cura del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA).[1]
Tra gli argomenti trattati all’ordine del giorno vi è stato proprio il tema, assai critico, della prevenzione dei danni ambientali, delle misure poste a salvaguardia del territorio nazionale, nonché l’efficacia della risposta del Governo nel far fronte alle conseguenze di disastri annunciati che ormai, sempre più spesso, interessano il territorio italiano e non solo.
Alcuni dei dati emersi dal rapporto risultano particolarmente utili nell’analisi della relazione tra questione ambientale e sfruttamento del territorio da parte del sistema capitalistico. Di seguito si riportano alcune delle informazioni maggiormente significative a tale scopo a cui segue un’analisi dal punto di vista della classe operaia del fenomeno.
Il legame tra consumo di suolo e interessi capitalistici
Tra i dati emersi, risulta nel 2023 una significativa riduzione dell’“effetto spugna”, ossia della capacità del terreno di assorbire e trattenere l’acqua e regolare il ciclo idrologico.
Il consumo di suolo rimane ancora troppo elevato e continua ad avanzare al ritmo di circa 20 ettari al giorno. Nel 2023, ciò ha portato al consumo di nuovi 72,5 km2 (una superficie estesa come tutti gli edifici di Torino, Bologna e Firenze). Il dato sul consumo risulta al di sopra della media decennale, tra il 2012 e il 2022, di 68,7 km2 e solo in piccola parte compensato dal ripristino di aree naturali (poco più di 8 km2, dovuti in gran parte al recupero di aree di cantiere).
Il consumo di suolo è in molti casi legato a categorie produttive ben determinate. In particolare, merita una menzione il settore della logistica, che da solo è responsabile del consumo di ulteriori 504 ettari in un solo anno. Non a caso, il fenomeno si concentra prevalentemente nelle regioni strategiche per la circolazione delle merci, ed in particolare nel Nord Italia, con un in testa Emilia-Romagna (101 ettari), Piemonte (91 ettari) e Veneto (80 ettari).
Laddove gli interessi delle multinazionali della logistica si concentrano, si evince che il consumo di suolo (2022-2023) coinvolge aree a pericolosità idraulica media. Per quanto riguarda questo aspetto, all’Emilia-Romagna, non a caso una delle regioni maggiormente colpite da eventi estremi negli anni recenti, spetta questo triste primato, con il 13,7% del totale.[2]
In Emilia-Romagna il territorio regionale, specialmente quello della provincia di Piacenza, è un crocevia naturale per le rotte commerciali verso il resto del territorio italiano, da nord a sud, e verso il Mediterraneo (porto di Genova). Insistono su questi territori una serie di poli logistici: quello di Le Mose (dove hanno costituito il loro hub tra gli altri DHL, FERCAM, UNIEURO, GLS), il Logistic Park di Castel S. Giovanni, il Magna Park di Monticelli d’Ongina. Chilometri e chilometri quadrati, collegati alla rete stradale e ferroviaria e che sono stati erosi al territorio libero. È evidente la messa in funzione dello sfruttamento del territorio agli interessi delle imprese capitalistiche, in spregio alla cura dell’ambiente.
Quali responsabilità hanno le istituzioni sul consumo di suolo
In Italia la pianificazione del territorio è sotto il controllo dal settore della pubblica amministrazione (Consigli Regionali – Consigli Comunali), le quali si muovono applicando le specifiche normative vigenti. La legge che in Italia, ancor oggi, sovrintende la pianificazione del territorio e/o urbanistica è la legge 17 agosto 1942, n. 1150. Concepita come norma di transizione, ma tuttora in vigore, anche se ha subito alcune integrazioni, stabilisce dei principi ispiratori, non tanto degli obiettivi. Doveroso considerare che sono trascorsi più di 80 anni dalla sua pubblicazione e il contesto socioeconomico italiano si è parecchio modificato nel tempo.
Da un parte le norme che insistono su questo tema non hanno aiutato ad arginare il fenomeno della cementificazione e del consumo di suolo, dall’altra le amministrazioni hanno fortemente contribuito all’erosione del territorio, rispondendo ai desiderata delle imprese capitalistiche, che sfruttano le risorse naturali, territoriali urbane e paesaggistiche, nell’interesse di pochi. Ciò avviene sia in virtù dello sviluppo anarchico dell’economia di mercato, sia per lo stretto legame tra le forze politiche che amministrano i territori e gli interessi del capitale di cui i partiti sono garanti.
Le singole Regioni, a loro volta, hanno assunto il ruolo di pianificazione della gestione del territorio di rispettiva pertinenza e mobilità al loro interno, nonché di dotazione infrastrutturale. Ognuna di esse si è dotata di una propria legge urbanistica-territoriale.
Le amministrazioni locali sono quindi da ascrivere tra i responsabili di un quadro ambientale sempre più disastrato e che negli ultimi anni è stato reso ancora più drammatico, dopo le alluvioni della regione Marche, avvenuta a cavallo tra il 15 e il 16 settembre 2022, e le alluvioni dell’Emilia-Romagna tra il 2 e il 17 maggio e nell’ottobre 2024.
Le città, inoltre, diventano sempre più calde. Nei principali centri urbani italiani, infatti, la temperatura cresce all’aumentare della densità delle coperture artificiali. Questo avviene anche a causa dell’espansione incontrollata delle cubature edificabili, a beneplacito della speculazione edilizia dei soliti palazzinari e immobiliaristi.
Alla malagestione nell’interesse delle grandi imprese, si aggiunge il fatto che l’intervento dello Stato e delle regioni avviene per lo più successivamente a eventi catastrofici e spesso, peraltro, con reciproci rimpalli di responsabilità nella gestione delle emergenze, piuttosto che prevedere politiche di prevenzione a salvaguardia degli interessi collettivi.
Dal punto di vista giurisprudenziale, va segnalato come negli anni recenti sia stata riconosciuta la responsabilità delle amministrazioni pubbliche in occasione di eventi catastrofici. Ad esempio, una sentenza storica è quella depositata il 29 novembre 2022 dalla Corte di Cassazione in merito alla gigantesca frana che colpì nella notte tra il 5 e 6 maggio 1998 la città di Sarno, in provincia di Salerno, provocando la morte di 137 persone travolte dalla colata di fango, a seguito di un evento alluvionale di eccezionale portata.
A oltre 24 anni da quei tragici fatti, i giudici della Suprema Corte hanno stabilito che il Comune salernitano dovrà risarcire le vittime. Tale sentenza è per l’appunto storica perché ha visto contrapposte diverse istituzioni pubbliche: il ricorso incidentale era stato presentato infatti da Ministero dell’Interno e Presidenza del Consiglio nei confronti dello stesso Comune di Sarno. Pur essendo il risarcimento un risultato positivo, ciò non può rappresentare una vittoria, in quanto mai potrà essere quantificato il valore delle vite umane perse.[3]
Un assoluto arretramento rappresenta al contrario la “Legge quadro in materia di ricostruzione post-calamità” (1632)[4] approvata alla Camera il 6 novembre scorso, la quale prevede la definizione di “schemi assicurativi volti a indennizzare le persone fisiche e le imprese” colpite dalla calamità.[5]
Dovremo ancora attendere per conoscere nel dettaglio le determinazioni del governo sul tema. Tuttavia una legge di questo tipo va nella direzione di far ricadere sul cittadino i costi assicurativi obbligatori per il rischio di calamità naturali. Un tale approccio fa ricadere gli oneri che dovrebbero essere a carico dello stato sulle fasce più deboli, a cui non può di certo essere addebitata alcuna responsabilità sulla gestione del patrimonio ambientale.
Conclusioni
Analizzando i dati messi a nostra disposizione dall’ISPRA troviamo conferma alle nostre considerazioni. La corretta gestione del territorio necessiterebbe, in luogo dello sviluppo anarchico dell’economia capitalistica, di una pianificazione centralizzata dell’economia, che tenga conto del contesto ambientale, che non anteponga il profitto privato e a breve termine allo sviluppo armonico del rapporto tra produzione e natura e che preservi l’ecosistema in nome del benessere collettivo.
Alla luce di quanto esposto, con una gestione del territorio totalmente subordinata agli interessi economici delle grandi aziende, risulta evidente il paradigma per cui si fanno ricadere sulle vittime i costi dei fenomeni naturali che colpiscono le popolazioni e soprattutto la classe operaia e gli strati popolari.
Il governo e le amministrazioni nascondono le loro responsabilità e la mancanza di politiche di prevenzione. Fino a quando i governi imporranno le loro politiche di sfruttamento del territorio a vantaggio di imprese e monopoli, non potranno essere soddisfatti i bisogni delle popolazioni.
Le contraddizioni che accompagnano le strategie borghesi di crescita del capitale portano alla progressiva distruzione dell’ambiente. L’incapacità di reindirizzare le risorse economiche, di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico alla soddisfazione dei bisogni della popolazione è l’ennesima colpa di un sistema pronto a sacrificare le vite umane sull’altare del profitto.