Donald Trump la sera del 2 aprile ha annunciato una serie di nuovi dazi, di diverso tipo, da applicare sulle merci estere: essi, secondo il Presidente americano, sono «più o meno della metà» rispetto a quelli «che gli altri Paesi applicano agli Stati Uniti». Per i prodotti importati dall’UE si arriva al 20%, dalla Cina al 34%. I dazi più alti al Vietnam (46%), mentre tra gli altri Paesi più colpiti Thailandia (36%), Taiwan (32%), Indonesia (32%), Svizzera (31%) e India (26%). I dazi si aggiungerebbero a quelli già previsti per specifiche merci e prodotti come automobili, acciaio e alluminio. Trump ha paragonato l’ordine esecutivo con cui sono stati istituiti i nuovi dazi a una «vera e propria dichiarazione d’indipendenza» che porterà a un «ritorno all’età dell’oro». Qualche giorno dopo, come conseguenza della richiesta della maggior parte dei Paesi colpiti dalle misure, Trump ha sospeso per 90 giorni i dazi definiti “reciproci” – ma non nei confronti della Repubblica Popolare Cinese – in attesa di affrontare dei negoziati che dovrebbero, secondo il parere della Casa Bianca, trovare una soluzione all’abissale deficit commerciale degli Stati Uniti. Parlando con i giornalisti a bordo dell’Air Force One, prima di atterrare a Roma per il funerale di papa Bergoglio, il presidente degli Stati Uniti ha spiegato che probabilmente la sospensione dei dazi non vedrà una ulteriore proroga.
Il presidente americano ha di recente tuonato, in particolare, proprio contro l’Europa che, come dice il nuovo inquilino della Casa Bianca, «riscuote un dazio del 10% sulle importazioni di veicoli, quattro volte superiore al dazio del 2,5% applicato dagli Stati Uniti alle autovetture»; in generale «se si guarda ai singoli Paesi e si osserva quanto ci fanno pagare, in quasi tutti i casi ci fanno pagare molto di più di quanto noi facciamo pagare loro – ha detto – e quei giorni sono finiti».
Siamo all’inizio, sembrerebbe, di una fase del capitalismo imperialista globale che vedrebbe una forte accelerazione della restrizione alla libertà di circolazione di merci e capitali – sulla scia di quanto già accaduto con la pandemia, fenomeno che ha messo in crisi le catene del valore lunghe per via dell’impossibilità degli spostamenti e che ha visto sintomi evidenti di tale cambiamento come la crisi dei container tra Cina e USA, la crisi di Suez con la nave bloccata nel canale, la crisi di fornitura di molti materiali critici come i chip e, quindi, avvio dei progetti di reshoring[1]. Si avvia, con Trump, addirittura un nuovo periodo di protezionismo reciproco, tenendo conto delle prevedibili ritorsioni dei Paesi che saranno colpiti dal Presidente degli Stati Uniti. La convinzione più diffusa tra analisti e politologi è, tuttavia, che questa svolta protezionista sia dovuta esclusivamente alla personalità del nuovo inquilino della Casa Bianca. Occorre contestare questo punto di vista soggettivistico e idealistico e mostrare come determinate iniziative politiche siano legate allo sviluppo inevitabilmente ineguale dell’economia capitalista, che tende a concentrare competitività, profitti e capitali in una zona del mondo o in un’altra a seconda delle contingenze storiche. Questo non per “assolvere” Donald Trump dalla responsabilità di una mossa che, fatta in un contesto di inasprimento delle condizioni di vita dei lavoratori, non potrà che scaricare su di essi tutte le turbolenze commerciali che essa produrrà. Infatti, la svolta protezionistica è connessa certamente anche all’aspetto soggettivo di Trump, non sul piano psicologico individuale come nelle analisi liberali, ma in quanto egli rappresenta una frazione della borghesia americana, in particolare quella più danneggiata dagli squilibri globali che andremo a illustrare e quella che si vede minacciata, nel lungo periodo, dalle innovazioni tecnologiche concorrenti, specialmente cinesi. Frazione della borghesia che è attualmente in rivalsa e che sta velocemente conquistando la sua egemonia prima di tutto all’interno del partito Repubblicano.
Uno sguardo complessivo alle radici di queste mosse, non limitato agli aspetti della personalità di Donald Trump, è utile per comprendere quanto, nella fase imperialista del capitalismo, le strategie dei diversi settori della borghesia globale siano in continuo mutamento a seconda dei rapporti di forza e delle necessità dei diversi monopoli. Strategie che devono essere tenute in considerazione dai lavoratori di tutto il mondo se vogliono sfruttare a proprio beneficio le contraddizioni tra i campi imperialistici.
Cominciamo a dare uno sguardo complessivo alla situazione nella quale si trovano oggi gli Stati Uniti nella piramide imperialista globale di cui, nonostante tutto, per varie ragioni (come la propria supremazia militare), occupano ancora il vertice.
Il paradosso dei debitori “vincenti” e la reazione dei creditori
Come osservano diversi economisti, la posizione netta degli Stati Uniti verso l’estero registra un passivo di oltre 18.000 miliardi di dollari: questa cifra è composta soprattutto di debiti, in particolare del settore pubblico, ma anche di quello privato. È un accumulo di passività senza precedenti, che ha ormai raggiunto quasi l’80% del PIL americano. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sostiene Emiliano Brancaccio[2], «con l’inizio della cosiddetta globalizzazione deregolata, la posizione netta americana ha iniziato a volgere verso il debito. Dalla crisi mondiale cominciata nel 2007 gli Stati Uniti sono, in particolare, precipitati, fino a raggiungere il record di passività dei nostri giorni. Chi sono i principali creditori internazionali? Al vertice delle posizioni attive, al di sopra di Giappone, Germania e Arabia Saudita troviamo oggi la Cina, con oltre 4.000 miliardi di credito verso l’estero. Completa la lista dei grandi creditori anche la Russia con circa 500 miliardi di crediti».
A questo punto, però, sorge un paradosso macroeconomico, secondo Brancaccio, che spinge la borghesia dei Paesi “creditori” a rivendicare l’acquisto sempre più massiccio di partecipazioni azionarie e aziende degli Stati Uniti, al fine di controllare maggiormente l’economia statunitense e centralizzare i capitali verso i creditori stessi. Infatti, i flussi di reddito netti, invece di essere positivi per la Cina e gli altri creditori e negativi per gli USA (per mezzo degli interessi pagati), sono positivi per gli americani per oltre 130 miliardi annui, a fronte di flussi di reddito negativi per molti creditori, tra cui la Russia con 43 miliardi e la Cina con 140 miliardi in uscita ogni anno. Questo perché le attività dei creditori (titoli di debito americani) rendono poco, mentre le attività che l’economia “debitrice” americana acquista (partecipazioni azionarie di aziende cinesi ad alto rendimento), anche grazie al grande afflusso di liquidità che il governo di Washington riversa a supporto delle compagnie private, rendono molto. L’investimento a profitto modesto o, addirittura, negativo nell’economia USA si spiega anche con la necessità da parte dei capitali stranieri di accedere a fette di mercato, di acquisire brevetti e tecnologie, sostanzialmente sacrificando l’aspetto del profitto immediato per gli interessi politico-economici legati alle relazioni di interdipendenza asimmetrica nel sistema mondiale imperialista. Ciononostante, la situazione di sbilanciamento dei flussi di reddito netti ha spinto la borghesia cinese, di riflesso, a spostare risorse sempre di più negli ultimi anni verso attività ad alto rendimento negli USA[3], e i capitalisti europei a fare la stessa cosa[4]. Il pericolo di uno spostamento della centralizzazione e concentrazione di capitale dagli USA verso queste zone del mondo, e quello della perdita del controllo della propria economia, è uno dei maggiori fattori che sembrerebbe aver avuto un impatto in questo cambio di strategia, che ha avuto un’accelerazione con la vittoria di Donald Trump. Un altro elemento che ha avuto un impatto sulla politica dei dazi, c’è da dire, è anche il tema del reshoring, ovvero la necessità dei capitalisti americani di avere fisicamente sul proprio territorio determinate produzioni, non solo quindi a livello di proprietà e relativi dividendi. Ricordiamo, ad esempio, il processo avviato già dall’amministrazione Biden (CHIPS Act) con un grande investimento pubblico per il reshoring della produzione di circuiti integrati. Oggi il centro della produzione di chip è a Taiwan, a rischio di essere sottratta con la forza alle aziende americane in caso di guerra nel Pacifico, con colossi dell’informatica come NVIDIA, Intel, e così via, che si troverebbero improvvisamente senza forniture.
Dopo aver delineato un quadro generale delle dinamiche inter-imperialiste dal punto di vista economico, diamo uno sguardo ora ai numeri più nello specifico.
USA, i numeri di una crisi commerciale
Che gli Stati Uniti, nonostante siano la maggior potenza finanziaria e militare, siano da decenni in affanno sul piano del commercio mondiale, è testimoniato da molti dati. Quelli degli scambi con l’Italia, in particolare, testimoniano quanto sia sbagliata la visione di chi interpreta l’economia italiana e la borghesia del nostro Paese come “serve” degli USA: in realtà, la borghesia italiana fa molti affari con gli americani, maggiormente che con Cina e Russia, ad esempio – e proprio per questo ha considerato sempre utile utilizzare l’ombrello della NATO come difesa militare e sacrificare qualche interesse immediato per mantenere il legame nel lungo periodo. In generale, è sbagliato interpretare le politiche protezionistiche degli americani come un “attacco ingiustificato” del capitale USA contro i popoli europei: si tratta di un botta e risposta tra la borghesia europea e fazioni della borghesia americana di cui, casomai, i proletari di entrambe le aree pagano le conseguenze.
La bilancia commerciale[5] degli Stati Uniti, come ha ricordato l’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) in un recente report, è oggi in profondo rosso (per oltre 1.100 miliardi di dollari l’anno)[6]. Secondo i dati Census Bureau, l’Europa vanta invece un attivo commerciale per il 2024 di oltre 213 miliardi. L’Italia, in particolare, è terza con un surplus commerciale di 43 miliardi di euro nei confronti degli USA. Negli Stati Uniti, inoltre, sono attivi 1.826 investitori italiani che hanno quote di partecipazione in 3.519 imprese negli USA – di cui 3.187 partecipazioni di controllo –, che sostengono circa 260.000 posti di lavoro e fatturano $143.7 miliardi[7]. L’Italia vanta, infine, uno stock di investimenti negli USA superiore a quello americano in Italia ($34,3 miliardi di IDE italiani negli USA nel 2021 rispetto ai $28 miliardi di IDE USA in Italia). Se l’imperialismo italiano sarà danneggiato dalla decisione di Trump è ancora incerto, quello che è certo è che queste scelte non sono una sorpresa e rientrano nella logica dei rapporti reciproci di interdipendenza tra Paesi capitalisti, nozione completamente diversa da quella che attribuisce l’“imperialismo” soltanto agli Stati Uniti e poche altre nazioni. In quest’epoca, una parte della borghesia degli Stati Uniti, dopo aver beneficiato enormemente della globalizzazione, ne è diventata la vittima e, soprattutto, settori importanti della politica borghese statunitense temono di perdere definitivamente la posizione di vertice nella piramide imperialista a causa di una tendenza alla centralizzazione del capitale in Asia e, in parte, in Europa, favorita dalla globalizzazione stessa. Da qui nasce il fenomeno Trump, ma Trump rappresenta solo il picco di una tendenza che ormai va avanti da anni. Vediamo.
Una strategia di lunga durata
Chi sostiene che il protezionismo di Trump sia un fulmine a ciel sereno e non parte di una strategia che si è gradualmente sviluppata negli Stati Uniti dovrebbe innanzitutto riflettere su quanto gli sforzi dell’amministrazione Biden, nonostante questa sia stata erroneamente interpretata dall’opinione pubblica come espressione del liberalismo economico, hanno effettivamente avuto lo scopo di limitare il flusso di alcuni beni e capitali tra Stati Uniti e Cina, tra Europa e Russia e tra Europa e Cina. Biden, ad esempio, ha raddoppiato gli sforzi del suo predecessore, ancora Donald Trump, che ha imposto dazi su acciaio e alluminio e 360 miliardi di dollari di beni cinesi. Biden aveva recentemente chiesto di triplicare i dazi sull’acciaio cinese, nonché di aumentare quelli sulle importazioni di veicoli elettrici, batterie e pannelli solari dalla Cina. Biden ha anche perseguito sanzioni, avviate nell’amministrazione Trump, contro società di comunicazioni di proprietà cinese come TikTok, WeChat e Huawei (anche se questi sono elementi diversi dai dazi, non necessariamente di natura protezionistica). Nel maggio 2019 Trump aveva vietato l’installazione di app americane (Google) sui telefoni cellulari Huawei e poi aveva vietato alle aziende di telecomunicazioni americane di installare le apparecchiature Huawei nelle loro reti 5G, citando preoccupazioni per la sicurezza nazionale. E nel maggio 2021, Biden ha esteso il divieto dell’amministrazione Trump sull’uso da parte delle aziende statunitensi di apparecchiature per telecomunicazioni Huawei[8]. Nel giugno 2021, il presidente Biden aveva emesso un ordine esecutivo che estendeva il divieto dell’amministrazione Trump sugli investimenti americani in aziende cinesi, tra cui Huawei, con presunti legami con i settori della difesa o della tecnologia di sorveglianza. «La principale esportazione della Cina è lo spionaggio», aveva affermato il senatore statunitense Ben Sasse, «e la distinzione tra il Partito comunista cinese e le aziende cinesi del “settore privato” come Huawei è immaginaria»[9]. Nell’agosto 2020, Trump aveva emesso un ordine esecutivo che vietava i social network cinesi TikTok e WeChat negli Stati Uniti. Nel febbraio 2023, Biden aveva ordinato la rimozione di TikTok da tutti i dispositivi di comunicazione forniti dal governo statunitense[10]. Da ciò bisogna ribadire, dunque, come Trump rappresenti un’accelerazione delle misure protezionistiche americane e non certo la loro inaugurazione. Ma che effetti avrà questa strategia sui rapporti di forza tra i Paesi capitalisti?
Quali conseguenze?
Rispondere a questa domanda non è semplice, anche se i precedenti sembrano mostrare quanto sia difficile che misure “tampone” come quelle conseguenti a una guerra di dazi possano invertire la direzione dello sviluppo capitalistico, che è orientato a premiare le economie con un più alto saggio di profitto (un maggiore margine di redditività rispetto agli investimenti effettuati) e un mercato più “giovane” e meno saturo, come quelle asiatiche.
La guerra commerciale che il governo degli Stati Uniti punta a utilizzare per negoziare scambi commerciali più “equilibrati” o “regolati” ha, infatti, come naturale obiettivo soprattutto la Cina. Nel caso dell’attuale protezionismo le aziende statunitensi scaricheranno presumibilmente sui salariati i prevedibili effetti negativi che questa strategia comporterà per un tessuto produttivo che, ormai, è fortemente dipendente dall’estero per la realizzazione di molte merci, che in assenza di un piano organico e di portata nazionale per la creazione delle infrastrutture e delle competenze necessarie a ricostruire certi distretti industriali (piano che Trump non sembra intenzionato a portare avanti se non, al massimo, attraverso l’occasionale ed eventuale decisione dei capitali privati) non potranno essere immediatamente sostituite o ricostruite dal punto di vista materiale e della competenza. Lo stesso tema del reshoring, più volte propagandato da Trump anche dal punto di vista della tutela dei posti di lavoro nei distretti industriali statunitensi, da questo punto di vista sembrerebbe più un’arma nella guerra commerciale legata alla necessità dell’amministrazione Trump di rinegoziare il ruolo parassitario del dollaro da un lato, e dall’altro di concentrare l’effettivo reshoring solo su produzioni chiave per i monopoli USA – e per le applicazioni militari – come i semiconduttori (strategia non già inaugurata dall’amministrazione Biden).
Nel 2017, gli Stati Uniti avevano già adottato dazi su circa il 17,6% delle importazioni, comprese quelle provenienti da altri partner commerciali oltre la Cina. Inoltre, per quanto riguarda le esportazioni, i partner commerciali hanno imposto ritorsioni sull’8,7% delle esportazioni del 2017. Nel 2016, le esportazioni rappresentavano circa il 12% del PIL degli Stati Uniti, il che significa che i partner commerciali hanno comminato ritorsioni sulle esportazioni corrispondenti a circa l’1% del PIL statunitense, con un aumento dei dazi dal 7,7% al 20,8%[11]. In totale, i dazi statunitensi e cinesi hanno colpito le importazioni e le esportazioni per un valore pari al 3,6% del PIL statunitense, dove questo valore si riferisce a un dato comprensivo, che include il valore delle importazioni e delle esportazioni Usa colpite dai dazi degli Usa stessi e dei partner. La Cina ha aumentato i dazi su circa l’11% delle importazioni e circa il 18% delle sue esportazioni sono state colpite dagli Stati Uniti.
E l’impatto dell’aumento dei dazi si è fatto sentire pesantemente sui produttori americani, sia in quanto importatori, sia in quanto esportatori verso il mercato cinese. Alcune aziende americane hanno subito una doppia penalizzazione dovuta ai dazi, importando componenti e attrezzature industriali dalla Cina per poi esportare beni finiti o esportando macchinari e parti da assemblare in Cina, e importare i prodotti assemblati. Invece, altre imprese sono state colpite soltanto da uno dei due aumenti dei dazi, cinese o statunitense. Secondo una ricerca di Lovely e Yang condotta nel 2018 ma molto interessante poiché mette in evidenza la commistione di interessi tra export cinese e alcune compagnie statunitensi, le imprese multinazionali americane che fabbricano beni in Cina utilizzando parti prodotte negli Stati Uniti sono state tra le aziende più colpite dai dazi, in quanto l’87% dei prodotti interessati è stato di proprietà di società non cinesi[12]. Solo il rimanente 13% è stato costituito da articoli prodotti da aziende cinesi. Inoltre, uno studio del 2019 condotto da tre economisti americani ha mostrato che, a seguito di questo aumento dei dazi commerciali, gli Stati Uniti hanno soltanto registrato aumenti sostanziali dei prezzi dei beni intermedi e finali, dei drastici cambiamenti nella propria rete di approvvigionamento, delle ovvie riduzioni della disponibilità di varietà importate e il completo trasferimento dei dazi sui prezzi interni dei beni importati. Il che significa che nessuna diversificazione industriale era stata realizzata dal capitale americano. Pertanto, finora, l’intera incidenza dei dazi è ricaduta sui consumatori e sugli importatori nazionali, e le stime calcolano una riduzione del reddito reale aggregato degli Stati Uniti di 1,4 miliardi di dollari al mese alla fine del 2018.
Anche per questo, è probabile anche che, consapevoli di queste prevedibili incongruenze, i membri dell’entourage di Trump abbiano puntato fin dall’inizio ad utilizzare i dazi per aprire dei tavoli negoziali con i concorrenti commerciali con i quali gli USA si trovano in deficit commerciale, al fine di stipulare degli accordi maggiormente favorevoli e meno basati sull’apertura indiscriminata alla libertà di circolazione. Tutto ciò è verosimile non solo perché c’è stata già la prima sospensione dei dazi verso la maggior parte dei Paesi colpiti, ma perché l’impatto che gli stessi hanno avuto sull’economia americana già durante il primo mandato del tycoon, come abbiamo visto, non promette nulla di buono se l’obiettivo era la “reindustrializzazione” degli USA.
A questa contraddizione, infine, se ne aggiungerebbe una seconda, che accenniamo soltanto: Trump ha dichiarato di voler lottare per mantenere l’egemonia del dollaro sugli scambi commerciali nel mondo ma nello stesso tempo, per mezzo del protezionismo, priva gli altri Paesi dell’accesso ai dollari necessari per essere utilizzati nelle transazioni, favorendone la decisione politica di ricorrere a valute alternative per gli scambi internazionali. Il risultato sarà un ulteriore inasprimento dei conflitti inter-imperialisti.
Appendice: la posizione del capitale italiano
Vogliamo chiudere questa panoramica con un’appendice che tratta nello specifico della posizione della borghesia italiana nella piramide imperialista. Sarebbe un errore da sottovalutare, infatti, considerare il padronato italiano come una “vittima” di questo gioco al massacro tra monopoli internazionali, un attore minoritario con il quale, magari, solidarizzare: le imprese e i monopoli italiani sono parti in causa di primo piano in questo scontro, con una loro strategia elaborata in Italia e nelle istituzioni europee.
Alla fine di settembre 2024 la posizione netta dell’Italia sull’estero era creditoria per 265 miliardi di euro, pari al 12,2% del PIL[13]. La borghesia italiana, quindi, è creditrice netta sull’estero. L’aumento di 9 miliardi rispetto alla fine di giugno è riconducibile principalmente al surplus di conto corrente e conto capitale (correlati a maggiori esportazioni e investimenti diretti).
Tra i paesi di sbocco, in particolare, gli Stati Uniti hanno offerto il maggiore contributo all’espansione dell’export italiano negli ultimi anni. l’Italia ha avuto un attivo commerciale con gli USA di 40 miliardi nel 2022 e di 13 miliardi nel periodo gennaio-aprile 2023[14]. Questo potrebbe cominciare a spiegare perché sacrificare milioni di vite con il sostegno alla guerra in Ucraina per consolidare il polo imperialista americano è qualcosa che conveniva agli imprenditori italiani e ai politici che ne rappresentano gli interessi. E questo vantaggio non è limitato alle grandi imprese: «le piccole e medie imprese – grazie alla loro capacità di esser rimaste nelle catene globali del valore e di sostenere in filiera tante eccellenze italiane – hanno contribuito in modo determinante alla tenuta dell’occupazione e ai record registrati dall’export»[15]. Tra la borghesia italiana, o almeno gran parte di essa, e molte parti della borghesia americana c’è una precisa comunanza di interessi economici.
L’Italia, in generale, è un Paese che esporta merci e capitali in larghissima prevalenza verso l’area europea e statunitense, mentre subisce la concorrenza delle merci e dei capitali cinesi (con la Cina l’Italia ha avuto un deficit commerciale di 40 miliardi lo scorso anno). Al contrario di quello che millantano i fautori della lettura dell’“Italia colonia”, ancora, il capitale italiano ha un ruolo centrale nel mondo e nell’area euro atlantica in particolare: solo nel 2021 le aziende italiane internazionalizzate risultavano circa 25mila e fatturavano complessivamente circa 567 miliardi l’anno, i Paesi in cui sono presenti multinazionali italiane sono ben 175[16], e il primato ce l’hanno proprio gli USA con quasi 158 mila addetti, seguiti a lunga distanza da Romania (oltre 82mila), Brasile (oltre 75mila) e Cina (oltre 69mila). Per il settore dei servizi al primo posto figura il Brasile (oltre 71mila addetti), seguito però a ruota da Spagna (quasi 66mila) e Germania (quasi 63mila). Con i BRICS i padroni italiani hanno quindi molti equilibri da mantenere e affari da portare avanti, ma la priorità in un momento di scontro globale oggettivo e inconciliabile è stata, evidentemente, massimizzare la collaborazione reciproca interna al continente europeo e con gli Stati Uniti.
Ancora, a raccogliere il maggior ammontare di investimenti diretti delle imprese italiane all’estero a fine 2021 sono Stati Uniti (45,9 miliardi), Spagna (42,8 miliardi) e Germania (36,3 miliardi) seguiti da Francia e Regno Unito. Seguono poi Paesi Bassi (35,5 miliardi), Lussemburgo (31,8 miliardi) e la Svizzera che ha addirittura attirato più investimenti della Cina, che si ferma a 12 miliardi, mentre il valore degli investimenti in Russia prima della guerra era misurato in 11,3 miliardi, un po’ meno di quanto investito dalle imprese italiane in Cile[17].
Il fatto che adesso le politiche commerciali degli USA si ritorcano contro gli interessi della borghesia italiana fa pienamente parte del gioco concorrenziale tra i monopoli finanziari e industriali, ma ciò non significa che le politiche della borghesia italiana fino alla fine dell’amministrazione Biden fossero “irrazionali” o “succubi degli Stati Uniti”.
Conclusioni
Quello che ci dobbiamo aspettare dal rilancio delle politiche protezionistiche a livello globale è, innanzitutto, un inasprimento dei conflitti inter-imperialistici tra i monopoli delle diverse aree del mondo, conflitti che avevano raggiunto già un livello di tensione estremo dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina e per via della generale situazione di instabilità del Medio Oriente legata anche al genocidio palestinese da parte di Israele. Se ora, apparentemente, l’amministrazione Trump punta a smobilitare gli sforzi americani contro il fronte russo per concentrarsi sulla guerra commerciale, ciò non significa che questa strategia non implichi una nuova e più massiccia militarizzazione degli scontri sul piano internazionale, in Medio Oriente e magari nel contesto del Pacifico. Una certezza, in ogni caso, è che a pagare il prezzo delle perdite economiche e sociali di questa guerra commerciale saranno i lavoratori e i proletari di ogni Paese, con un aumento dei prezzi dei beni di consumo e un incremento delle spese militari, che andrà a detrimento della spesa sociale. Le conseguenze saranno subite dai proletari, esattamente come essi avevano pagato lo scotto delle massicce liberalizzazioni degli anni Ottanta e Novanta attraverso la competizione al ribasso tra i salari dei lavoratori di tutto il mondo – d’altronde, le politiche di austerità dell’Unione Europea, che hanno compresso il salario diretto, indiretto e differito (buste paga, servizi pubblici e pensioni) sono state la chiave di volta proprio della grande competitività europea e del suo surplus, a cui abbiamo fatto riferimento.
Note
[1]: Il processo di riportare le attività produttive e di fornitura in un paese dopo che erano state precedentemente delocalizzate all’estero.
[2]: https://www.youtube.com/watch?v=g1QTnKKxLAU
[4]: https://europa.today.it/economia/piano-frenare-fuga-investimenti-europei-usa.html
[5]: La differenza tra il valore monetario delle esportazioni e delle importazioni di un Paese in un determinato periodo di tempo.
[11]: https://tesi.luiss.it/36628/1/255781_TRAPANESE_GIULIA%20MARIA.pdf
[12]: https://tesi.luiss.it/36628/1/255781_TRAPANESE_GIULIA%20MARIA.pdf
[16]: https://www.quotidiano.net/economia/fatturato-aziende-italiane-estero-812d1a96