L’Ordine Nuovo e i Consigli di fabbrica
La scelta della nostra rivista di assumere il nome de L’Ordine Nuovo richiama espressamente l’esperienza e il patrimonio politico che si formò nel gruppo torinese attorno a figure del calibro di Gramsci, Togliatti, Terracini, Tasca. Il gruppo fu animato proprio da Gramsci con lo scopo di rinnovare il PSI nel momento più alto della lotta di classe in Italia. Per comprendere le ragioni di questa scelta e gli elementi centrali e innovativi della concezione ordinovista, che furono tra l’altro apertamente appoggiati da Lenin, e fondamentali nella costruzione del futuro PCd’I nel 1921 a Livorno, pubblichiamo alcuni contributi. L’attualità della riflessione de L’Ordine Nuovo si coglie appieno nella comune congiuntura di crisi capitalistica e nella necessità – ancora oggi – di ragionare sugli strumenti attraverso i quali far evolvere la lotta di classe, sul piano generale del rovesciamento dei rapporti sociali capitalistici di cui l’esperienza dei Consigli rappresentò un valido esempio. [Nota di Redazione]
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«Prima che la guerra si sferrasse nel mondo con il suo flagello irresistibile, con alcuni amici si era deciso di lanciare una nuova rivista di vita socialista che fosse come il focolare delle nuove energie morali, del nuovo spirito rivoluzionario ed idealista della nostra gioventù. Avrebbe dovuto essere slancio e riflessione, incitamento all’azione e al pensiero. […] Ma l’intento non è stato dimesso. Le parti del nostro animo che la guerra ci ha strappato, ritorneranno al focolare. E la rivista sarà».
Con queste parole, nell’ultima parte del numero unico La città futura [1] – scritto nel 1917 per la Federazione Giovanile Socialista piemontese –, Gramsci ricordò quell’intenzione che ebbe nel periodo universitario, assieme a compagni quali Togliatti, Tasca e Terracini, di fondare una rivista che fosse capace di svecchiare quel socialismo italiano di inizio ‘900 incapace di proporre una teoria e un’azione politica che fossero coerenti. Socialismo che, se sul lato teorico mostrava parecchie incrostazioni positivistiche e deterministiche e una lettura di Marx ben lontana da come venne coerentemente sviluppata poi da Lenin, sul lato pratico era ormai scaduto su posizioni riformiste e, nel Nord industriale, era ormai avvinghiato dalla politica di Giolitti [2], capace di mantenere – almeno circa fino alla crisi scatenata dalla guerra – un equilibrio delle forze liberali al Nord con una politica di miglioramenti salariali e limitate libertà sindacali, utilizzati come valvola di sfogo per le proteste operaie che, fin dall’inizio del nuovo secolo, erano andate in continuo aumento [3]. Il PSI, anziché sfruttare la ribellione diffusa, specie nel contesto torinese, fra gli operai, finì per diventare uno strumento nelle mani delle manovre giolittiane, limitando la spinta propulsiva dei lavoratori anziché direzionarla verso scopi rivoluzionari. Proprio contro tali politiche si mosse Gramsci e l’Ordine Nuovo fu l’espressione giornalistica di tali intenti.
All’interno di tale rivista, Gramsci dimostrò la capacità di coordinare un lavoro che coinvolgesse nel modo più ampio possibile lavoratori, realtà sindacali, politiche, intellettuali di differenti formazioni, ecc., cercando di non perdere, pur con non poche difficoltà [4], l’unità e la coerenza della linea politica e teorica che la rivista cercava di sviluppare e portare avanti.
Ma soprattutto, ciò che è più interessante è che l’Ordine Nuovo, nel confronto dialettico con la tradizione marxista e specie con la teoria leninista e l’esperienza bolscevica della presa del potere in Russia, divenne il rappresentante principale della concezione dei Consigli di fabbrica, cioè l’idea per cui la produzione all’interno dell’azienda poteva e doveva essere gestita e organizzata democraticamente dai lavoratori stessi, capaci di utilizzare le proprie competenze per sviluppare un piano produttivo che facesse a meno del ruolo parassitario rappresentato dal padrone d’azienda.
La centralità che, nell’Ordine Nuovo, venne data ai Consigli non dipendeva solamente da un motivo che si potrebbe dire ovvio in una concezione della società marxista. Il superamento del capitalismo implica – si scusi la semplificazione – il superamento della figura del padrone, di chi è proprietario dei mezzi di produzione, cioè il superamento di quell’elemento parassitario che, grazie alla proprietà privata dei suddetti mezzi, vive tramite i profitti ricavati dallo sfruttamento della forza-lavoro salariata alle sue dipendenze. Molto spesso, nell’immaginario comune, si finisce per recepire la figura dell’imprenditore come essenziale nel luogo di lavoro, essendo lui il “cervello” capace di guidare l’azienda. La realtà è che la figura del padrone rappresenta semplicemente colui che, come detto, è proprietario dei mezzi di produzione e che ha un controllo sui salariati alle sue dipendenze. Ciò non esclude che esso sia anche un lavoratore nella sua stessa azienda, cioè che copra uno dei differenti ruoli richiesti (spesso a livello amministrativo), ma neppure viene implicata questa relazione. In qualsiasi contesto lavorativo ci sono differenti ruoli e mansioni richieste, cosa innegabile e fondamentale, che si tratti di avere una azienda in un sistema capitalista o in uno socialista. In tali mansioni non è invece inclusa la figura del padrone, che è un elemento sociale implicato dal sistema economico capitalista, con tutte le problematiche che tale figura implica – tra cui l’interesse a spremere, in nome del guadagno, la forza-lavoro salariata. Nell’Ordine Nuovo il superamento della figura del padrone era un elemento fondamentale nella proposta del sistema basato sui Consigli, ma la riflessione non si limitava a parlare di un astratto superamento del sistema vigente, individuando in concreto gli elementi strutturali su cui far leva per realizzare questo passaggio storico.
Un altro punto fondamentale della proposta era la necessità di sviluppare una democrazia nei luoghi di lavoro come passo fondamentale per la presa del potere e per una strutturazione socialista che sia reale e non scadi in un’amministrazione burocratica o nuovamente autoritaria dello Stato.
Sul primo elemento, è molto utile l’analisi che ne fa Salvadori nel suo saggio su Gramsci Lotta di classe e organizzazione del lavoro nella transizione dal capitalismo al socialismo. Inizialmente, l’operaio – sia per le proprie esperienze dirette che per la presenza di chi politicamente lo aiuta a formarsi, come ad esempio l’Ordine Nuovo – si rende conto che lo sfruttamento in fabbrica non può che mantenerlo perennemente in una condizione di salariato spremuto negli interessi del padrone. La coscienza di essere sfruttato e della strutturazione classista della fabbrica lo porta a organizzarsi con gli altri lavoratori per ottenere una forza contrattuale sempre maggiore, così da migliorare le proprie condizioni. Ma non solo: proprio l’ottenuta coscienza di classe lo spinge a organizzarsi anche nei suddetti Consigli di fabbrica, cioè ad organizzarsi collettivamente con gli altri operai per attuale un controllo dell’operato del padrone.
Tramite quest’operato, il corpo dei salariati si rende conto che, con le proprie competenze, può semplicemente sostituire il capitalista al timone dell’azienda, cioè superare lo stesso sistema di sfruttamento presente per giungere ad una gestione socializzata della produzione.
Questa consapevolezza, nonché magari l’ottenimento di un controllo sulla fabbrica, portano successivamente a rendersi contro che il controllo su una singola fabbrica non è sufficiente, ma serve una collaborazione dell’apparato economico generale – che altrimenti, se rimanesse in mano alla borghesia, soffocherebbe gli esperimenti socialisti – e, dunque, bisogna giungere ad una presa del potere politico, partecipando e legandosi a quella realtà che dovrebbe coordinare tali sforzi: il partito comunista.
Questo processo di presa di coscienza è fondamentale perché, in primis, evidenzia la necessità di partire dai luoghi di lavoro, dalle contraddizioni quotidiane che il lavoratore subisce sulla propria pelle. Da quelle contraddizioni bisogna cominciare per coordinare la rabbia dei salariati verso lotte economiche e politiche coerenti e coordinate verso una soluzione che coinvolga l’intera società. Soprattutto, l’esperienza diretta in fabbrica permette di vivere concretamente la possibilità di superare il sistema vigente – notando la superfluità del capitalista – e dar coscienza di come la propria lotta economica, ristretta al proprio luogo di lavoro, non possa attuarsi completamente senza esser legata ad una lotta politica di ampio respiro, cioè per il controllo della società e il suo sviluppo in senso socialista. Ovviamente Gramsci non intendeva con ciò un passaggio graduale di stampo socialdemocratico, che dal capitalismo avrebbe pacificamente portato al socialismo: lui stesso visse in prima linea la reazione violenta della borghesia non appena venne messo in crisi il suo controllo a livello politico e sulla produzione (si pensi, a Torino, alla nascita a inizio Novecento di Confindustria come organo degli industriali per controbattere con forza alle richieste sempre maggiori degli operai). Con ciò, il comunista sardo evidenziava la necessità di preparare il più possibile il terreno, dando coscienza ai lavoratori a partire dai propri luoghi di lavoro. Un’azione che avrebbe alleviato le condizioni di sfruttamento nei limiti del possibile e che, di fronte alla reazione violenta dei padroni, avrebbe dato l’esempio concreto ai lavoratori che, nel capitalismo, non c’è speranza per un forte miglioramento.
Un altro fondamentale elemento presente nel processo di lotta proposto da Gramsci è che, partendo proprio dai luoghi di lavoro, la lotta di questo tipo permetteva ai lavoratori di sviluppare una conoscenza e un controllo del mondo produttivo essenziale per la successiva presa del potere. Senza cioè un sostrato almeno in parte preparato di operai, contadini, tecnici, ecc. capaci di prendere in mano l’economia e di svilupparla secondo un piano coerente e capace di soddisfare le esigenze delle masse, la conquista del potere politico si troverebbe poi in mezzo a problemi insormontabili. Non si supera il capitalismo con un manipolo di pochi militanti, per quanto essi possano essere preparati e capaci. Serve una coscienza di classe il più possibile diffusa, che dia la possibilità di prendere in mano lo Stato: senza scadere nell’utopia di avere un popolo già preparato appieno prima di ottenere il potere, ma senza neppure scadere in provare tentativi infruottuosi senza un sostrato solido alle proprie spalle.
Sostrato che i Consigli permettevano di sviluppare, tramite un progetto che, dando protagonismo ai lavoratori, permettesse loro di sperimentare una produzione basata non sullo sfruttamento, ma sulla solidarietà e la collaborazione di classe; non sull’autoritarismo e l’arbitrio di uno, ma su una strutturazione democratica sia delle decisioni più legate al proprio lavoro che della pianificazione economica generale, dove chi fosse incaricato, tramite elezione, di organizzare la produzione, sia sul piano aziendale che sul piano nazionale, fosse continuamente controllato dai lavoratori, possibilitati a revocarlo nel caso egli si mostrasse incapace o non interessato a portare avanti quanto discusso e deciso in fabbrica[5]. Lo sviluppo di tale capacità d’azione democratica e collettiva è, agli occhi di Gramsci, l’arma migliore per controllare efficacemente l’economia e la società, nonché per evitare di scadere nel rischio di una centralizzazione economica burocratica e non in mano ai lavoratori.
Di fronte a tali riflessioni, si può comprendere per Gramsci l’importanza dell’occupazione delle fabbriche che avvenne nel settembre del 1920 a Torino, a conclusione di un biennio rosso che, se fallì nei suoi sbocchi rivoluzionari, non lo fece per mancanze di occasioni propizie, ma per le lacune organizzative, politiche e culturale di un partito – il PSI – che si era ancorato a posizioni riformiste e non faceva altro che frenare la ribellione delle masse. Quel tentativo di presa di controllo della produzione e del potere, per quanto alla fine, nel concreto, si limitò principalmente a Torino, assunse agli occhi del futuro fondatore del PCI il valore di un evento storico, l’esempio italiano della Comune di Parigi. Con esso, infatti, gli operai avevano mostrato al paese intero che era possibile fare a meno dei capitalisti, che una gestione del luogo di lavoro differente e in mano ai lavoratori era possibile. Veniva sfatato il mito per cui il capitalista era il “cervello” – come spesso propagandavano al tempo i giornali borghesi – e l’operaio il braccio meccanico che, da solo, non fa niente.
«Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche, si dimostrarono all’altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti.» [6]
Tal cosa era ovviamente – e lo è tutt’ora – inaccettabile per la classe capitalista: dar ragione alla possibilità degli operai di gestire la produzione implica la negazione del proprio ruolo. O dunque la si smette di essere capitalisti, o si lotta strenuamente per impedire in ogni modo l’emergere e l’affermarsi in concreto dei nuovi rapporti sociali.
Ma quanto avvenuto a Torino nel 1920, grazie soprattutto ad un lavoro politico ed educativo che ha avuto nell’Ordine Nuovo un perno fondamentale, non può essere più cancellato e sta ai comunisti ricordare quell’esperienza e farne tesoro, come già fece Gramsci negli anni successivi, quando, nel 1926, ricordò il mirabile esempio della fabbrica torinese Giachero e la paura dei capitalisti di fronte ad esso.
«Esisteva a Torino – scriveva Gramsci – una fabbrica, la fabbrica Giachero, la quale fu assunta in gestione dal compagno Gagliazzo, semplice operaio, la cui preparazione consisteva solo nel tirocinio, per il quale l’apprendista che entrava in fabbrica a 12-13 anni e inizia col fare lo scopino, giunge dopo una carriera industriale di sette od otto anni, durante lo svolgimento dello studio del mestiere strettamente legato al lavoro produttivo, a diventare un lavoratore qualificato. Col compagno Gagliazzo lavoravano solo un centinaio di operai, tutti, o quasi, inscritti al nostro partito. La fabbrica doveva produrre macchine da scrivere e le prime mille macchine stavano per essere terminate. La fabbrica sembrava un gabinetto di scienziati. Gli operai lavoravano su banchi verniciati… Visitare la fabbrica era la soddisfazione più grande che un rivoluzionario potesse provare. La disciplina industriale era mantenuta e si confondeva con la disciplina che nasce tra compagni dalla convivenza del partito. Il dato che esprime per i competenti il perfetto funzionamento industriale della fabbrica era questo: i residui inutilizzati delle materie prime erano del 4-5 per cento inferiori a quelli consentiti nelle fabbriche capitalistiche meglio attrezzate e disciplinate.
Abbiamo detto che la fabbrica Gagliazzo stava per terminate le prime mille macchine. Si era nel febbraio 1921: l’offensiva reazionaria, dopo il fallimento riformista dell’occupazione delle fabbriche, era iniziata. I capitalisti pensarono che era «diseducativo» per le masse operaie l’esistenza di una fabbrica come quella del compagno Gagliazzo. Fu imbastito il sempiterno complotto. Il compagno Gagliazzo fu arrestato. La maestranza comunista fu licenziata e dispersa. Il capitalista Giachero rientrò illegalmente in possesso della fabbrica. I sindacati fascisti gli offrirono una maestranza di elementi nazionali, cioè che avrebbero dovuto essere ligi ai doveri che impone la disciplina industriale esercitata dai capitalisti per i fini superiori che sono noti anche ai boccali di Montelupo. Invece dei cento operai, da cui era costituita la prima maestranza, furono arruolati ben trecento operai. Dopo quindici giorni non esisteva piú nella fabbrica una lampadina elettrica intatta. I giovani e forti trecento eroi del servilismo al capitalismo si erano divertiti a farle scoppiare con le adeguate pallottole delle loro rivoltelle. Nel 1922 ancora nessuna macchina da scrivere era uscita dalla fabbrica, e crediamo che ben poche ne siano uscite successivamente.» [7]
La storia è ricca di esperimenti e successi del mondo operaio e socialista. Sta a noi riprenderli in mano e lottare per ottenere nuove conquiste.
Di Antonio Martinetti
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[1] A. Gramsci, La città futura (1917-1918), Einaudi, Torino 1982, p. 34.
[2] M. L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, Einaudi, Torino 1973.
[3] Per avere un’idea concreta degli sviluppi delle lotte operaie in tal periodo, può essere utile, da un punto di vista generale, l’opera di Renzo Del Carria Proletari senza rivoluzione, mentre, per una analisi concentrata sugli avvenimenti del contesto torinese, dove Gramsci andò poi a studiare e militare, si veda Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista (1892-1917).
[4] Non mancarono infatti discussioni e anche divisioni teoriche fra Gramsci e gli altri fondatori dell’ON, fra cui i sopracitati Togliatti, Terracini e Tasca. A riguardo, G. Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Laterza, Bari 1966, pp. 139 e 153.
[5] A riguardo, si vedano gli articoli Sindacati e Consigli (11 ottobre 1919) e Il movimento torinese dei Consigli di fabbrica (14 marzo 1921), entrambi pubblicati sull’Ordine Nuovo.
[6] A. Gramsci, Ancora delle capacità organiche della classe operaia (1 ottobre 1926), pubblicato su l’Unità.
[7] A. Grasmci, Gli operai alla direzione delle industrie (18 settembre 1926), pubblicato sull’Unità.