Chi governerà la crisi sociale? 1/2
Il messaggio di Giuseppe Conte rivolto ieri sera alla nazione non è stato un normale messaggio istituzionale, ma qualcosa di assai diverso. Lo spettro che da giorni aleggia su Palazzo Chigi si chiama Governo Draghi, ed è questo spettro che ieri con forza Giuseppe Conte ha voluto provare a scacciare via. Un’ipotesi complicata a dire il vero, perché la sostituzione di un Governo in piena emergenza pandemia non è una cosa semplice. Ma è una suggestione insistente agitata più volte da settori importanti di questo Paese, non lontani dalla stessa Confindustria. Quando pensiamo a quello che sta accadendo non dobbiamo mai dimenticare cosa rappresenta questa congiuntura storica per le classi dominanti e i governi.
La gestione della pandemia e delle sue conseguenze è un enorme terreno di scontro, che sta amplificando in un solo colpo tutti i fenomeni da tempo in atto, connaturati con le logiche capitalistiche proprie della fase di sviluppo odierna del capitalismo, tanto a livello nazionale che internazionale.
Dietro ogni dichiarazione, ogni provvedimento ci sono scontri tra interessi di classe, scontri interni alle stesse classi dominanti, conflitti di carattere capitalistico tra imprese e società concorrenti, proiezione internazionale di questo scontro internamente al mercato comune europeo e alle sue istituzioni, e sul sistema delle alleanze internazionali.
Solo due giorni fa il politologo D’Alimonte, in un’intervista su Formiche.it rispondeva così ad una domanda sulla necessità di un governo di unità nazionale: «per far ripartire il Paese andranno prese decisioni difficili, dolorose e politicamente costose per l’assunzione delle quali sarebbe opportuna la condivisione dei rischi e delle relative responsabilità» D’Alimonte individua in Draghi la figura giusta a guidare il Paese: «ha competenze indiscutibili la cui autorevolezza e il cui prestigio sono riconosciuti ovunque, in Europa e nel mondo. E l’Italia in questo momento ha il disperato bisogno di accrescere la propria reputazione internazionale. Anche a Bruxelles ovviamente, dove i suoi rapporti e le sue capacità diplomatiche potrebbero risultare fondamentali nell’ottica di un pieno sostegno dell’Unione al rilancio dell’economia italiana». [1] Il politologo concludeva la sua intervista ringraziando Conte per il lavoro svolto, ma non ritenendolo la persona necessaria, né la sua maggioranza idonea, a guidare la fase futura.
Non è detto che lo scenario di un governo di unità nazionale si realizzerà: tutto dipenderà dalla capacità o meno di questo Governo di portare a casa i risultati che il capitale italiano pretende, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale.
D’altronde la situazione che si profila all’orizzonte non è ordinaria amministrazione. Le previsioni più recenti parlano di un PIL italiano a -8,5%, un tracollo ben superiore di quello registrato con la crisi del 2008/2009, dalla quale l’Italia non è mai realmente uscita e nella quale perse circa il 25% della produzione industriale, centinaia di migliaia di posti di lavoro mai più realmente assorbiti, con un cospicuo incremento del debito pubblico. Anche quel contesto, la cui portata fu ben minore, richiese un governo di unità nazionale con Monti alla testa, e ancora oggi paghiamo le conseguenze sociali di quelle scelte in tema di pensioni, lavoro, fiscalità, riforme strutturali e costituzionali. In un contesto del genere è naturale che le classi dominanti richiedano la maggiore condivisione politica delle scelte necessarie, specialmente se l’unità nazionale serve ad affrontare la gestione della futura crisi sociale.
La mossa di Conte è stata quella di attaccare Salvini e Meloni in diretta televisiva per la campagna condotta sul MES, approfittando delle grossolane imprecisioni della loro propaganda. Ma se il messaggio diretto che ha scaldato i cuori a sinistra è stato sbugiardare in prima serata la destra, il messaggio più insidioso è stato farsi portavoce diretto dell’interesse nazionale. Conte ha detto apertamente: chi attacca me e il Governo in questa fase delicata attacca l’Italia. Colpire la destra, con la stessa retorica della destra – quella dell’interesse nazionale e della necessità della direzione forte – atteggiandosi lui stesso e il suo esecutivo a difensore dell’interesse nazionale, sgombrando il campo dall’idea della compartecipazione nella cabina di regia dell’attuale opposizione, tacciata di agire contro l’interesse comune dell’Italia.
In questa direzione gli strumenti di comunicazione utilizzati appaiono essi stessi una prova di forza: un intervento fatto slittare intelligentemente in prima serata, privo di contraddittorio, in un misto di comunicazione istituzionale e comunicazione politica che ha tutta l’autorevolezza della prima categoria, per sfociare in tutta la sua forza nella seconda finalità.
Chi pagherà i costi sociali della crisi
Come ha giustamente spiegato in modo tecnico Domenico Moro in un articolo da poco pubblicato, il compromesso raggiunto all’Eurogruppo è sostanzialmente un nulla di fatto nell’immediato e un rimandare lo scontro alla fase futura. Un MES a condizioni ridotte per le sole spese sanitarie; il Recovery Fund un sistema di partite di giro in cui in sostanza gli stati nazionali versano e ricevono con poche variazioni sulle quote proporzionali. Un insieme di misure inoltre più dichiarate che realmente scritte nero su bianco, e che bisognerà attendere chiaramente per vedere.
Ma un altro passaggio della dichiarazione di Conte merita un’analisi attenta. Il Premier assicura che l’Italia non ricorrerà al MES perché non ne ha bisogno. Questa assicurazione solo apparentemente elide il problema.
L’enorme mobilitazione di risorse a sostegno delle imprese e le misure dichiarate dal Governo che sommate tra loro arrivano a circa 750 miliardi di euro (il 40% del PIL italiano), in un modo o nell’altro saranno spalmate sulle spalle delle classi popolari, forse non nell’immediato ma certamente nelle successive misure di rientro del debito, che l’impianto europeo prevede.
I tentativi più blandi di settori del PD riscopertisi un po’ “di sinistra” almeno per propaganda, che avevano proposto un contributo di solidarietà sui redditi sopra gli 80.000 euro sono stati per il momento bloccati. Una misura che in realtà andrebbe ad intaccare solo in parte i veri ricchi, perché ragionare sul reddito esclude tutti i grandi capitalisti da tempo residenti all’estero proprio per ragioni di convenienza fiscale, e soprattutto non intaccherebbe come necessario la consistenza dei grandi patrimoni. Nessun prelievo sui grandi patrimoni, nessun incremento di tassazione per i monopoli dell’e-commerce o della distribuzione che in queste settimane stanno facendo incassi d’oro. Nessuna misura contro il grande capitale in un momento in cui si chiedono grandi sacrifici per tutti. Nulla.
Su questo destra e sinistra si sono dimostrate del tutto d’accordo. Nelle famose proposte portate dal centrodestra a Palazzo Chigi, oltre la sbandierata misura del contributo di 1000 euro a cittadino della Meloni, la sostanza prevedeva: nessuna patrimoniale sui grandi patrimoni, zone economiche speciali per far ripartire le imprese delle regioni del nord on regime di esenzione fiscale. Un programma da sogno per i grandi capitalisti. Un’ulteriore prova del fatto che la polarizzazione sul livello europeo e internazionale dello scontro da sola significa poco e maschera il livello dello scontro di classe in atto.
Qui si arriva al centro del problema. La straordinarietà di questa fase rende necessarie misure di contenimento e rende comprensibile – persino auspicato – da settori delle classi popolari, il ricorso ad una guida forte.
La necessità di contrastare la pandemia non elude il carattere di classe delle misure in atto. La delega a gestire l’emergenza data a governi borghesi sarà sempre utilizzata prima di tutto per rappresentare gli interessi delle classi dominanti nell’emergenza. La salvaguardia di quelli collettivi è subordinata alla corrispondenza di questi alle necessità del capitale.
È ormai provato che le pressioni degli industriali sul Governo nazionale e sugli enti locali abbiano rimandato l’adozione di provvedimenti di contenimento della diffusione dell’epidemia, garantendo al virus un prezioso lasso di tempo per diffondersi in cambio di mantenere aperte le aziende e non rinunciare agli ordini già ricevuti.
Siamo divenuti in questi giorni tutti a nostro modo esperti di grafici e statistiche e sappiamo bene che tanto più è alto il punto di partenza della discesa della curva epidemica, tanto più questa sarà lunga nel tempo. Le proroghe continue alle misure contenitive di questi giorni sono il prodotto diretto della lentezza con cui si è agito all’inizio, lentezza determinata dalla necessità di tutelare gli interessi dei capitalisti. Quello che viviamo oggi è già una parte del costo sociale scaricato sulle classi popolari.
Abbiamo assistito direttamente alle pressioni di Confindustria per evitare la chiusura delle aziende. Dapprima protocolli inutili tra le parti sociali, pieni di “buone pratiche” sottoscritte anche dalle dirigenze confederali, ma nessuna misura vincolante. Poi interventi diretti per bloccare, posticipare l’entrata in vigore di provvedimenti, a dichiarazione pubblica già avvenuta (l’unico provvedimento non a sorpresa è stato quello sulla chiusura dei luoghi di lavoro non necessari). Poi misure per mettere mano alle liste per allargare le maglie dei settori “necessari”.
Ma anche quando le misure sono arrivate per le imprese, è partito il balletto delle deroghe con decine di migliaia di richieste ricevute. Abbiamo largamente documentato, insieme all’attività dei lavoratori e di importanti settori sindacali, che molte più imprese rispetto a quante dovrebbero sono in attività in questo momento. Anche questo significa già da oggi scaricare i costi sociali sui lavoratori e sulle classi popolari. Mentre si punta il dito sulle passeggiate sotto casa, additate come responsabili di ogni male, si continua a produrre beni non necessari per la collettività, ma indispensabili per garantire i profitti del grande capitale. Anche questi sono già costi sociali delle crisi.
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[1] https://formiche.net/2020/04/governo-draghi-ricostruzione-dalimonte/